Schweitzer Fachinformationen
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Di mattina presto, la prima a uscire di casa, come sempre, fu Grazia, dato che il suo posto di lavoro era dall'altra parte della città. Dalla Via Del Velo, dopo una cinquantina di metri sulla Via Plebiscito, attraversava l'ampia strada alberata di oleandri in fiore e si avviava verso la fermata del tram, davanti all'ospedale. Nella borsa il solito porta mangiare di alluminio, una gavetta, ultimo ricordo di guerra, con un resto della cena della sera precedente: il modesto pranzo per la pausa di mezzogiorno. Era stata la sorella Lina a prepararglielo, si alzava infatti molto prima di lei, ancora al buio, per accudire la madre, da anni paralizzata.
La vecchia donna era tutta un gemito. Ai dolori agli arti si aggiungeva un'insonnia ormai cronica. Le sue notti erano lunghe e inquiete. Fra una veglia e l'altra, volgeva gli occhi in direzione della grande finestra, in attesa di vedere finalmente un pallido spiraglio di luce fra gli interstizi delle grosse imposte di legno. Sarebbe allora rientrata in una realtà sgombra di incubi o visioni, veri fantasmi di morte, che da tempo ormai frequentavano le sue notti. Quelle prime luci portavano un filo sottile di speranza, ma anche una piccola vittoria sulle ombre che avevano angosciato le lunghe ore notturne.
Lina, mentre la lavava e la vestiva, doveva sentire i suoi lamenti, ma anche le proteste:
«Stai attenta. non sono fatta di legno. mi fai male. sei rozza, insensibile. e non correre. fai piano.»
Ogni tanto si fermava per dare alla madre un momento di respiro, e si scusava, sempre umile, se aveva fatto un movimento sbagliato. Finalmente la sollevava di peso e la metteva a sedere sulla sua poltrona, al solito posto vicino alla finestra e preparava il caffellatte. Avevano preso l'abitudine di fare colazione tutti e tre insieme, quasi per caso, una piccola pausa spesso assai silenziosa che si concedevano prima di iniziare la giornata, lunga e faticosa.
Appena uscita la sorella, Lina metteva ordine in casa, una stanza di media grandezza al pianterreno di una palazzina a un solo piano, più il sottoscala, un bugigattolo che nelle ore pomeridiane e serali le serviva anche da laboratorio e al disbrigo delle faccende domestiche, essendo l'unico locale con acqua e cucinino. Si erano ridotte in questa casa in seguito alla morte del padre. Tempi assai duri che non volevano ricordare.
Lina, per chissà quale motivo soprannominata dai vicini di casa 'signorina Tuba', era modista, di età indefinibile, piuttosto alta, magra, un viso stranamente liscio, privo di rughe, ma in qualche modo sfiorito o, meglio ancora, come un fiore appassito. Aveva capelli radi, fini, - lei diceva per il continuo provare cappelli e turbanti - fra il castano e il grigio, un colore che si potrebbe definire polveroso, tenuti raccolti dietro la nuca in un minuscolo nodo sempre sul punto di sciogliersi. Anche i suoi vestiti, inesorabilmente scuri, si mantenevano su toni non bene identificabili, fra il nero, il grigio, il bruno, sempre ben curati, non privi di una certa eleganza. Forse per motivi professionali, aveva preso l'abitudine di piegare graziosamente la testa da una parte, per ascoltare con attenzione quando si parlava con lei. Ma l'espressione attenta, affettuosa degli occhi buoni non era certo frutto di consuetudini professionali.
Aveva un senso innato di eleganza, di distinzione che la rendeva diversa dalle altre donne del vicinato: e si vedeva dal modo di muoversi, di camminare: il corpo diritto, la piccola testa eretta sulle spalle senza arroganza ma con dignità; la gestualità discreta; una sorta di riservatezza in tutto il suo essere e non ultima la voce, sempre moderata, armoniosa. Conoscendola si pensava subito che provenisse da una nobile famiglia, o almeno dall'alta borghesia.
La signorina Tuba era una donna estremamente sensibile, di animo gentile, incapace di un pensiero volgare, grossolano, piena di riguardi per la madre, la sorella, il mondo intero. Anche se questo non era sempre facile. A differenza della famiglia e di tutto il vicinato, parlava sempre in lingua italiana, con la lingua di fuori12, come motteggiava la madre, pur mantenendo un accento cantilenante, molle, tipico del dialetto siciliano. Lei stessa non avrebbe saputo spiegare il motivo di questa sua abitudine: forse il contatto quotidiano con clienti dell'alta società, o più semplicemente per via della padrona del negozio di mode in cui lavorava, proveniente dal nord Italia. Sta di fatto che neanche le occhiate ironiche dei vicini, o i commenti spesso taglienti della madre la facevano desistere; sembrava essere la sua unica protesta contro la società nella quale viveva, anche se in fondo si trattava solo di motivi professionali, e non di snobismo, come qualcuno pensava.
Alla madre era ormai abituata, ai suoi lamenti, ai rabbuffi
per ogni piccola mancanza: sempre scontenta qualsiasi cosa facesse, sempre pronta a rimproverarla per ogni nonnulla, a riversare su di lei malumori, contrarietà, irritazioni che accumulava nel corso della sua giornata solitaria. Lina l'ascoltava con concentrata attenzione, quasi si trattasse di novità e non si scusava neanche, tanto sarebbe servito solo ad attizzare nuove recriminazioni.
Si accollava tutto senza protestare: la pulizia della casa, la cucina, l'assistenza alla madre, il lavoro mal retribuito, il buono e il cattivo tempo. Sembrava essersi rassegnata una volta per tutte, quasi avesse messo una pietra sulla propria vita in modo definitivo. Non sembrava cosciente di questo atteggiamento, forse perché sottomessa per natura o per educazione: mai una rivolta, un impuntarsi, mai una qualsiasi reazione negativa. Si smarriva un momento ai rovesci o ai cosiddetti colpi del destino, quasi per riprendere fiato, poi andava avanti, addossandosi nuovi pesi, nuove responsabilità.
La mattina, finite le faccende di casa, usciva anche lei per andare in centro dove da anni lavorava nello stesso negozio di mode, sia al servizio delle clienti che nella confezione dei vari modelli che venivano ordinati. All'una chiudeva il negozio, e prendeva lo stesso tram che la riportava a casa. Qui si metteva subito in cucina per preparare un pasto modesto per sé e la madre. Solo alcune volte alla settimana era costretta a uscire poco prima delle quattro per tornare al negozio. Andava sempre in giro con una cappelliera: la padrona non mancava di darle del lavoro da finire in casa. Nel suo microscopico laboratorio, consistente in un piccolo tavolo, una testa di legno e due sedie, più una lampadina appesa al soffitto spiovente, sempre accesa, e cioè dalla mattina alla sera - quel sottoscala non prendeva luce da nessuna parte -, trascorreva ore e ore, occupata a tirare feltri inumiditi a vapore per metterli in forma, secondo i vari dettami della moda. Per questo motivo le sue dita erano sempre leggermente colorate di scuro, un colore che non andava via neanche dopo vari lavaggi: sembrava esser conficcato nella carne, parte di essa. Le sue mani, dalle dita sottili, aristocratiche, sciupate dal lavoro domestico e dal continuo contatto con feltri e colori, conservavano un'eleganza, una grazia di movimenti che affascinavano inconsciamente chiunque le osservasse. Era un gioco leggero, espressivo, di polso, dita e appena appena di avambraccio. Mani indubbiamente sensibilizzate da anni e anni di lavoro. Una vera artista.
Spesso lavorava fino a notte fonda, quando la madre e la sorella, coricate nella stanza accanto, scandivano il ritmo delle ore col respiro pesante, leggeri borbottii nel sonno di una, il russare quasi aggressivo della vecchia, spezzando il silenzio che la circondava: un silenzio pesante, opprimente.
Sussultava al minimo scricchiolio di un tarlo smarrito fra i labirinti scavati nell'unico mobile di qualche valore presente in quella casa, il comò di mogano. Ma anche i passi solitari di qualche passante che furtivi si allontanavano nella strada la mettevano in allarme; o il fruscio di un essere vivente non bene identificato, forse un topo di fogna, che sgattaiolava leggero lungo il muro della scala confinante col suo sgabuzzino. I nervi a fior di pelle, in una tensione insostenibile, restava qualche minuto in attesa di un secondo rumore più deciso, forse pericoloso. come quella notte in cui fu scassinato il negozio accanto, un negozio di generi misti. Aveva tremato alle voci soffocate dei rapinatori, ai fischi di intesa per la strada e poi al rumore leggero della saracinesca mentre veniva sollevata. Mai avrebbe dimenticato quei momenti, il fiato sospeso, i brividi di terrore che ancora sentiva serpeggiare lungo la schiena se soltanto passava davanti a quel negozio.
Dopo una pausa, in cui non osava neanche guardarsi intorno, proseguiva poi il lavoro, non acquietata, tutti i sensi in stato di allarme: temeva le ore notturne, forse per i fantasmi che si annidavano nei suoi pensieri, e allora le tremavano le mani al punto da non poter infilare l'ago. Paralizzata, non osava alzarsi per prendere un bicchiere d'acqua e non sapeva come calmare quell'ansia che la prendeva alla sprovvista; se poi per caso la madre smetteva di russare e a volte di respirare, in una specie di apnea, tendeva angosciosamente l'orecchio, col cuore in tumulto e riprendeva fiato solo quando la madre, dopo aver emesso un profondo sospiro, riprendeva a respirare. Subito dopo la sua voce, piano, quasi un lamento «Lina, Lina», e bisognava rigirarla nel letto, finché avesse trovato una posizione un po' meno scomoda. Si alzava allora precipitosamente, liberata dalla sua angoscia, dalle paure, e la soccorreva. Anche se dormiva, si...
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