IL PRINCIPE E IL POVERO
La storia era troppo affascinante per non farne un film: 1924, Olimpiadi di Parigi, due atleti britannici, Harold Abrahams ed Eric Liddell, capaci di salire sul gradino più alto del podio difendendo i loro princìpi. Il primo, studente ebreo a Cambridge, nei 100 metri, il secondo, già formidabile ala nella nazionale scozzese di rugby, nei 400, rifiutando da devoto cristiano di gareggiare la domenica. Sullo sfondo, dopo la Grande Guerra, il ritrovato ottimismo dei ruggenti anni Venti, l'elegante ambiente dell'Università di Cambridge e i valori dello sport nella più nobile accezione.
Il produttore David Puttnam, già membro della Camera dei Lord, capì che il Premio Oscar non si sarebbe disinteressato a un simile lavoro. Chariots of Fire, tradotto in Italia con Momenti di Gloria, fu affidato alla sceneggiatura di Colin Welland. Vicende realmente accadute rendevano il compito non troppo complicato: bastava mettere tutto nero su bianco, giusto "piccole correzioni" per normali esigenze di copione. Tutto a posto? No. Perché sono proprio i dettagli, anche minimi, a poter diventare insormontabili.
Il problema nacque proprio da una di quelle "piccole correzioni", quelle che nella letteratura e nel giornalismo anglosassone sono concesse per non rovinare una bella storia con la verità.
Nel suo lungo lavoro di ricerca, Welland aveva avvicinato anche alcuni dei reali protagonisti della vicenda ancora viventi all'epoca delle riprese. Tra loro David George Brownlow Cecil, sesto marchese di Exeter, noto a tutti come Lord Burghley, il quale, tra gli enormi meriti sportivi, politici e dirigenziali che riempirono la sua vita, vantava anche un primato di cui andava molto fiero: essere stato, nel 1927, il primo studente a completare le 401 yard del perimetro del cortile del Trinity College all'Università di Cambridge prima che il campanile dell'ateneo completasse il dodicesimo rintocco. Per tradizione la prova si correva il giorno del pranzo delle matricole e per settecento anni ogni tentativo si era rivelato infruttuoso. Fino, appunto, alle ore dodici di quel fatidico giorno del giugno 1927.
Lord Burghley non aveva nessuna intenzione di vedersi scippare sulla pellicola i 43.6 secondi di corsa a perdifiato che gli avevano fruttato l'imperitura gloria accademica. Informato da Welland che la narrativa cinematografica imponeva di anticipare l'impresa a prima dei Giochi parigini e, soprattutto, farla realizzare ad Abrahams, fu irremovibile: «Se attribuite ad altri il merito, non vi autorizzo a utilizzare il mio nome».
Tra il copione e la fermezza del nobiluomo ebbe la meglio la seconda. Welland fu costretto a creare il fittizio personaggio di Lord Lindsey, nobile studente di Cambridge anche lui con ambizioni olimpiche: in una scena del film si allena verificando il corretto passaggio degli ostacoli appoggiando un calice di champagne a ogni barriera. Altra licenza di sceneggiatura, il marchese non avrebbe mai sprecato una sola goccia del lavoro dell'abate Perignon per gli allenamenti, e sugli ostacoli si serviva di meno costose scatole di fiammiferi.
Non poteva certo essere un copione cinematografico, per quanto ambizioso, a smuovere il sesto marchese di Exeter dalla difesa del suo buon nome e del suo talento. Nato in una famiglia nobile da quasi quattro secoli, educato prima in Svizzera, poi a Eton, Lord Burghley arriva infine a Cambridge. Oltre al buon rendimento scolastico, si mette in luce anche per i meriti nello sport: in pista come atleta, nei ruoli di potere come dirigente, diventando presto presidente dell'University Athletic Club.
Le Olimpiadi di Parigi, quelle del film, arrivano per lui troppo presto: ha solo diciannove anni, è eliminato al primo turno dei 110 ostacoli. La vera occasione si sarebbe presentata quattro anni dopo, ai Giochi di Amsterdam. Lord Burghley li prepara mettendosi in luce ai British Championship. Non ci sono, all'epoca, né Campionati europei (prima edizione nel 1934 a Torino), né mondiali (esordio a Helsinki nel 1983). Il torneo britannico è aperto anche a chi non è suddito di Sua Maestà e, Olimpiadi a parte, per gli atleti del vecchio continente è l'unica occasione di confronto con un titolo in palio. Lord Burghley, sugli ostacoli, ha pochi rivali. Le vittorie sembrano conseguenza di una vita da predestinato al successo, in cui i soli ostacoli sono proprio quelli da superare in pista.
Non altrettanto si può dire di un suo avversario che, nel 1927, la Federazione italiana di atletica iscrive ai Campionati inglesi. Si chiama Luigi Facelli, è nato ad Acqui Terme e, a differenza di Lord Burghley, i suoi studi si interrompono ben prima dell'università. Famiglia povera, manco a dirlo, e il misero stipendio di papà come soffiatore di vetro non basta a mantenere moglie e otto figli. Per accoppiare il pranzo con la cena, a dodici anni finisce anche lui a plasmare la pasta magmatica attraverso uno strumento in cui, appunto, si soffia. Il fiato non gli manca e dall'impasto verde che lui produce ogni giorno si arrivano a modellare centosessantacinque damigiane da quarantacinque litri di capacità, materiale importantissimo in una terra da vino. Con queste cifre diventa uno degli operai più ricercati dai padroni, lui non sa ancora che quello spaventoso esercizio gioverà ai suoi polmoni da atleta.
Da ragazzo partecipa a qualche corsa in paese, vincendo con distacchi da tappone dolomitico. Quando compie diciannove anni lo Stato si ricorda di lui: classe 1898, riceve la cartolina precetto e viene spedito sul Carso. Ne esce vivo, saltando con agilità tra trincee e filo spinato per eludere le pallottole e anche se non sa neppure cosa sia l'atletica, sotto le armi partecipa, con buon successo, ai Campionati militari.
Un ufficiale che lo ha notato al fronte lo invita a insistere con lo sport. Luigi, tornato civile, gli dà retta, senza per altro avere una precisa idea sulla specialità da scegliere; corre le distanze dagli 800 ai 3000 metri, vince un Campionato italiano di salto triplo, finisce terzo in quello dell'alto (lui che misura appena 175 centimetri) fino a che un giorno, al campo della Forza e Coraggio a Milano, incontra Adolfo Contoli, ventiquattro titoli nazionali nelle discipline più diverse, impegnato in una gara sugli ostacoli. Gli chiede come funziona la specialità, il campione si dimostra gentile e disponibile con le spiegazioni. Luigi è colpito da quella gentilezza ma ancora più affascinato da quella strana corsa con le barriere. Decide di provare. Conoscenza tecnica inesistente e l'anno dopo, iscritto al Campionato nazionale dei 400, non ricorda neppure se gli ostacoli siano otto o dodici. In realtà sono dieci, ma decide di non pensarci: "Li supererò ogni volta che me li troverò davanti", pensa.
Alla seconda gara, ad Alessandria, eguaglia il primato italiano e, da lì, lo demolisce a più riprese sino a meritarsi la corsia ai British Championship, a fianco di Lord Burghley. Il marchese di Exeter e il soffiatore di vetro, lo studente di Cambridge e il ragazzo costretto a lasciare la scuola, l'aristocratico e il proletario, mondi separati da distanza siderale nella vita, non su una pista di atletica. Ci avessero pensato produttori e sceneggiatori di Momenti di Gloria questo sarebbe potuto essere un bel sequel, che non avrebbe trovato l'opposizione da parte del nobile David Cecil.
Il 2 luglio 1927, a Londra, vince Lord Burghley. Facelli, alla prima grande esperienza internazionale, non sfigura. In quell'occasione viene preso solo il tempo del vincitore: 54.2 mentre l'italiano, si legge nel referto ufficiale, è terzo a 4 yard. Terminata la gara i due si congratulano a vicenda e, anche se nessuno parla la lingua dell'altro, bastano una stretta di mano e qualche gesto a far nascere un'amicizia. Luigi è sorpreso dalla cortesia del marchese, Burghley ammirato dall'eleganza naturale della corsa dell'italiano. Forse, nell'inconscio dell'inglese c'è un vago senso di colpa, lo stesso che attanagliava i nobili che, nello sport, chiedevano la squalifica dei plebei costretti, per sfamarsi, a svolgere un'attività assimilabile a un allenamento pagato.
De Coubertin aveva previsto che gli atleti non solo non dovessero ricevere denaro, ma fosse pure vietato loro prepararsi alle competizioni. Un manovale, un artigiano, un fattorino erano stipendiati per attività che, quella era l'idea, proiettate nello sport si sarebbero trasformate in un indebito vantaggio. Un soffiatore di vetro come il Luigi Facelli da Acqui Terme avrebbe quindi esercitato da salariato i polmoni.
Ci sono esempi folli: nel 1920 il signor John Kelly, famiglia irlandese emigrata a Filadelfia, si vede rifiutare l'iscrizione alla Royal Regatta di Henley-on-Thames, classica del canottaggio sul Tamigi. La motivazione? Imprenditore edile e prima muratore, avrebbe maggiore dimestichezza manuale dei rivali nell'impugnare i remi. Molto seccato, decide così di iscriversi ai Giochi di Anversa dove vince l'oro sia nel singolo sia nel doppio con il cugino Frank Costello. Prende allora carta e penna e scrive a re Giorgio V, presidente onorario del club remiero di Henley: «Sua Maestà, la ringrazio per aver rifiutato la mia iscrizione. Ho potuto così prepararmi alle Olimpiadi che, mi consentirà, sono più importanti della vostra gara». Si firma a bricklayer, un muratore completando così l'elegante...