Le trincee di Bezzecca
I protagonisti sul campo
Louis Appia, medico a lungo attivo a Ginevra, che fu tra i fondatori della Croce Rossa Internazionale.
IL CORPO VOLONTARI GARIBALDINI 1866 E LA FLOTTA DI GARIBALDI SUL LAGO DI GARDA
«Che i volontari dovessero prendere parte alla guerra a fianco dell'esercito regolare era questa [.] una di quelle quistioni risolte di loro natura, le quali non attendono che il momento propizio per essere attuate».
Anche nel 1866, come già nel 1859 successe per esempio con i Cacciatori delle Alpi, i volontari avrebbero dovuto essere organizzati militarmente, ma senza superare numeri eccessivi: 15.000, anche perché «un maggior numero avrebbe prodotto più confusione che vantaggio». Mentre erano queste le idee del governo, nel giro di poche settimane a partire dal 6 maggio (quando già i regolari erano raccolti sulla linea dell'Adda e del Po) si iniziarono ad arruolare i componenti del Corpo Volontari 1866. Accorrevano da ogni angolo della penisola, da 24 Paesi stranieri, da 3 continenti diversi, da ogni ceto sociale e da ogni genere di esperienza lavorativa. Sono 43.543 i garibaldini censiti dal progetto "La mappa ritrovata" promosso dall'associazione Araba Fenice in collaborazione con il Museo garibaldino e della Grande Guerra di Bezzecca. Oggi conosciamo, grazie a quasi 9000 fotografie scattate ai registri matricolari dell'Archivio di Stato di Torino, i loro nomi e cognomi, quelli dei loro genitori, il loro Paese di provenienza e il loro inquadramento nel corpo. Se pare furono quasi 70.000 i "candidati" su scala nazionale, furono circa 18.000 quelli che arrivarono a Bezzecca per la battaglia. Presenti alla battaglia del 21 luglio furono sicuramente il 2°, il 5°, il 9° e i 2 squadroni di guide a cavallo. Esaminando poi gli elenchi dei morti e dei feriti, si è ritenuto corretto aggiungere all'elenco tutti gli appartenenti alle compagnie che, pur inserite in reggimenti non presenti a Bezzecca, contenevano almeno un soldato morto o ferito nella battaglia del 21 luglio. Questo metodo ha permesso di aggiungere 17 compagnie del 6° reggimento e 8 compagnie del 7°. Più di 7000 del totale avevano tra i diciotto e i ventitré anni e, anche se gli accordi iniziali prevedevano il riconoscimento di una paga per i volontari, raffrontabile a quella dei regolari, tuttavia questi militari arriveranno nel Tirolo solo con ciò che il governo aveva fornito inizialmente, cioè «mutande, pantaloni, scarpe e fucili arrugginiti»; talvolta accolti festosamente, talvolta battezzati «come diavoli» i volontari arrivarono in valle di Ledro «giovanissimi, non pratici di montagna, doloranti per le piaghe ai piedi, mal vestiti e male armati, e spesso affamati», ma guidati dal desiderio di «lasciare il segno italiano».
Il dipinto La battaglia di Bezzecca del 1866 di Eugenio Perego, pittore garibaldino a Bezzecca, nipote e allievo di Domenico Induno.
Delle tante cose che si sanno di Garibaldi, ce n'è forse una passata inosservata fino a oggi: al suo seguito nel 1866, durante la campagna del Tirolo, non c'erano solo le mitiche giubbe rosse, ma addirittura una flotta sul lago di Garda, di stanza tra Salò e Gargnano, che si scontrò con la potente flotta austriaca, che in quegli anni dominava quelle acque sulla rotta tra Peschiera e Riva del Garda. Le forze navali italiane, in quella breve guerra estiva del 1866, furono dunque operative in due scenari: sul mare Adriatico a Lissa e sul lago di Garda, in questo caso affidate al comando garibaldino.
Per concludere, la cosa più clamorosa, che confermerebbe una leggenda che circolava negli ambienti lacustri gardesani, e cioè che qualcosa della flotta di Garibaldi fosse rimasto, addirittura la baleniera utilizzata dal patriota in persona. In effetti, in una tenuta di Peschiera è custodita la barca con la quale raggiunse Salò da Desenzano il 18 giugno 1866 per fare un sopralluogo e rendersi conto dello stato precario e di inferiorità in cui si trovava la flotta del Garda, composta da 6 cannoniere a elica dotate ciascuna di un pezzo di artiglieria liscio da 40, mentre la flottiglia austriaca era composta da 6 cannoniere e 2 vapori, e dotata complessivamente di ben 30 cannoni.
LOUIS APPIA
Louis Appia fu uno dei fondatori della Croce Rossa e operò tra i feriti garibaldini del 1866. Nato nei pressi di Francoforte nel 1818 da una famiglia valdese di origine piemontese, studiò medicina «per rendersi utile all'umanità». Fece il medico condotto in Svizzera a Jussy e poi a Ginevra, ma nel 1859 abbandonò tutto per raggiungere l'Italia e dedicarsi all'assistenza ai feriti di guerra sul fronte italiano nella Seconda guerra d'indipendenza. A Desenzano cercò di emulare l'opera di un altro ginevrino, Henri Dunant, che si trovava a Castiglione. Assieme a lui si dedicò con slancio a studiare il problema del trasporto dei feriti dalla prima linea di combattimento all'ambulanza militare. I due iniziarono dunque a sviluppare l'idea di una nuova associazione filantropica universale composta da personale sanitario volontario capace di agire sui campi di battaglia secondo il principio della neutralità dei feriti e dei loro soccorritori: tanta era la loro convinzione e la stima nei loro confronti, che il 29 ottobre 1863 a Ginevra ci fu una conferenza che stabilì i compiti dei volontari e il loro distintivo, un bracciale bianco, proposto da Appia, con una croce rossa, proposta dal generale Henri Dufour. Nacque così la Croce Rossa Internazionale, che entrò in azione subito nel 1864 in Prussia, proprio con il dottor Appia. Nel luglio del 1866, assieme ad altri volontari, troviamo Appia nei vari ospedali da campo di Storo, Pieve di Bono, Condino, Vestone e Tiarno, dove scrisse una breve diario, Les Blesses de la Bataille de Bezzecca dans la Valee de Tiarno (Tyrol). Per tutti gli anni a seguire si dedicò completamente alla sua missione, che ormai era divenuta internazionale e riconosciuta. Morì povero nel 1892.
GIUSEPPE ZECCHINI
Giuseppe Zecchini nacque nel 1842 a Molina di Ledro in una delle famiglie all'epoca più note e facoltose della valle: lo zio Agostino era il "padrone del lago", aveva cioè acquistato i diritti di usufrutto ed era, con la sua lunga barba bianca, una figura conosciuta e importante, partecipe, nella valle, di molte attività economiche. All'inizio della guerra del 1866, a ventiquattro anni, Zecchini, verosimilmente attirato da ideali libertari, fuggì in Italia e raggiunse Edolo, una delle sedi in cui si stava costituendo il corpo dei volontari garibaldini. Qui cercò di essere arruolato nei cosiddetti carabinieri milanesi (perché combattevano con la carabina modello 1856), divenuti poi il corpo dei bersaglieri volontari al comando di Nicostrato Castellini. La sua richiesta pareva inizialmente impossibile, in quanto gli arruolamenti erano già chiusi da tempo e lui era senza divisa e arma, impossibilitato quindi a combattere. Dopo ricerche insistenti, il 3 luglio riuscì ad avere la carabina e la divisa da un bersagliere ferito; il giorno successivo finalmente poté partecipare al combattimento per la ripresa del paese di Vezza d'Oglio nella compagnia del capitano Adamoli: era il suo primo giorno di combattimento e anche, purtroppo, l'ultimo. Fu una battaglia sfortunata per le truppe italiane a causa di incomprensioni sorte fra due comandanti che favorirono l'accendersi di un cruento combattimento nei dintorni, fra i garibaldini sparsi per le campagne circostanti, non coordinati, e le truppe austriache bene assestate fra le case. Giuseppe Zecchini cadde, colpito alla fronte, quello stesso giorno.
I CIUARÖI, CHIODAIOLI DELLA VALLE DI LEDRO
La lavorazione del ferro in valle di Ledro ha origini molto antiche, risalendo al XV secolo. La produzione più caratteristica è però quella che si sviluppò nel XIX, quando nelle fucine si iniziarono a forgiare chiodi da scarpa: le broche. Dopo il 1866, quando dal bresciano e dal bergamasco affluirono in valle degli operai, nelle officine si diede inizio a questa lavorazione che richiedeva abilità e specializzazione. Le broche avevano forme diverse e proteggevano le suole delle calzature, che nei migliori casi erano in cuoio, o più spesso in legno, rendendole meno scivolose specialmente in ambiente montano. I ledrensi appresero la fabbricazione delle "brocche a zappa" che si sviluppò, ancora una volta, soprattutto a Prè e Molina, dove nelle fucine si tornò a sentire il battito ritmico dei martelli. L'attività continuò incessante fino alla loro chiusura a seguito della chiamata alle armi da parte dell'esercito austriaco e all'esodo in Boemia durante la Grande Guerra. Di conseguenza, venne a mancare all'esercito la fornitura delle brocche. Grazie all'interessamento del parroco di Molina, il governo concesse il richiamo dal fronte di molti ex chiodaioli e fece costruire un paio di fucine nelle zone centrali dell'Impero (circondario di Vienna), dove vi trascorsero tutto il periodo della guerra. In questa maniera non correvano rischi, ma ogni chiodaiolo doveva produrre circa un migliaio di brocche al giorno, quantitativo non indifferente considerando che per ogni brocca erano richiesti circa 30-40 colpi di martello.
Anche durante il Secondo conflitto mondiale i chiodi da scarpa erano molto richiesti, ma questa volta gli esoneri militari e le licenze furono molto meno e così, per far fronte alla domanda, giovani e...