PROLOGO
«Signorina! Entri che le presento mia nonna!» L'invito mi era stato rivolto una ventina d'anni fa da un giovane sorridente che mi aveva visto arrancare su uno sterrato nell'oscura isola di Sumba, nell'Indonesia sudorientale. Si moriva dal caldo, c'era polvere ovunque e io avevo una gran sete. Probabilmente sua nonna aveva qualche storia da raccontare, e sarebbe stato piacevole fare due chiacchiere. Perché no? Mi arrampicai su una scaletta fino a una veranda di bambù in cui altri giovani stavano facendo un gran baccano con tamburi e gong, poi mi chinai per passare dalla porta bassa e sbattei le palpebre nel buio della stanza senza finestre. Infine, oltre i minuscoli granelli di luce che filtravano dalla trama di canne delle pareti, scorsi un poster di Gesù e del Sacro Cuore. Su una sedia di bambù c'era una borsa di biancheria sporca. Ma per il resto la stanza era deserta; nessun segno della nonnina.
«Un attimo!» Il giovane armeggiò con la borsa della biancheria, la aprì e sollevò un fazzoletto in cima scoprendo un corpo. La nonna era morta il giorno prima, e, secondo la tradizione locale, avrebbe ricevuto visite quotidiane fino al funerale, quattro giorni dopo. «Per lei è un onore fare la sua conoscenza» disse. E ci sedemmo a prendere il tè.
In Indonesia, questi momenti improbabili sono molto comuni. In Indonesia, un candidato presidenziale che funge anche da sultano e presiede in incognito la camera nazionale del Commercio tiene alla sua corte una banda di nani albini perché portano fortuna. In Indonesia, un capo della polizia ti spiega con nonchalance la storia delle convocazioni dei coccodrilli: i rettili innocenti indicano la bestia colpevole di aver mangiato qualcuno, e così gli agenti possono procedere a catturarla. È un Paese in cui è possibile sorseggiare una birra con un generale che ammette candidamente di prolungare una guerriglia per gonfiare il bilancio, o dove può capitare di prendere un tè con un cadavere.
In realtà, la nazione stessa è improbabile: una sfilza di 13.466 isole abitate da un popolo di oltre 360 gruppi etnici, che parla in tutto 719 lingue.1 Oggi esiste perché la sua combinazione di cenere vulcanica e aria di mare si è rivelata perfetta per le spezie, e le spezie hanno attirato gli europei. Non paghi di commerciare con i principi e sultani del luogo come i loro predecessori arabi, indiani e cinesi, gli europei hanno creato vari monopoli, generando conflitti, colonizzazione, cleptocrazia e una guerra di indipendenza. Il moderno Stato indonesiano è sorto sulle macerie di questi processi.
Quando, nel 1945, i padri fondatori della nazione hanno proclamato l'indipendenza dai coloni olandesi, il documento diceva solo: «Noi, il popolo indonesiano, dichiariamo con la presente l'indipendenza dell'Indonesia. Le questioni relative al trasferimento dei poteri ecc. saranno affrontate con il massimo impegno e il prima possibile».
L'Indonesia è alle prese con quell'«ecc.» fin da allora.
Molti Paesi hanno stentato a trovare una ragion d'essere che trascenda le linee disegnate su una mappa dai precedenti colonizzatori, ma pochi hanno dovuto mettere insieme tanti elementi così disparati. La moderna Indonesia si snoda attorno alla circonferenza terrestre, coprendo una distanza paragonabile a quella tra Londra e Teheran, o tra Anchorage in Alaska e Washington DC. All'estremità nordoccidentale, sulla punta di Sumatra, c'è Aceh, popolata da malesi musulmani, i cui lineamenti conservano tracce arabe, fieri di chiamare la loro terra "la veranda della Mecca". Circa 5200 chilometri a sud-est si trova la provincia di Papua, che occupa la parte più consistente della metà occidentale della gigantesca isola della Nuova Guinea. La prima volta che ho visitato Papua, gli abitanti, dalla pelle scurissima, giravano completamente nudi a parte un astuccio penico; quel popolo ha sviluppato alcune delle tecniche agricole più sofisticate dell'arcipelago. Gli abitanti di Papua e quelli di Aceh mangiano cibi diversi, venerano dèi diversi, suonano musica diversa e appartengono a etnie diverse. E moltissime altre culture locali stanno adattando tradizioni antiche ai tempi moderni secondo modalità del tutto diverse.
Oggi l'Indonesia ospita uno su trenta abitanti del pianeta - 240 milioni secondo gli ultimi calcoli - ed è la quarta nazione più popolosa al mondo. Jakarta twitta più di qualsiasi altra città sulla Terra, e circa 64 milioni di indonesiani usano Facebook, ovvero più dell'intera popolazione del Regno Unito. Eppure, 80 milioni (sarebbe a dire, come tutta la Germania) vivono senza elettricità, e 110 milioni (l'intero Messico) campano con meno di due dollari al giorno. Centinaia di migliaia vivono senza elettricità, con meno di due dollari al giorno, e sono su Facebook.
La lista dei record indonesiani - "più grande del mondo", "decine di milioni" e "a crescita più rapida" - è lunga. E tuttavia, come ha detto di recente l'imprenditore indonesiano John Riady: «L'Indonesia è forse il Paese più invisibile a livello internazionale».
Certo non sapevo quasi niente dell'Indonesia la prima volta che ci sono andata per conto dell'agenzia Reuters nel 1988. Nel 1983, a diciannove anni, avevo fatto un viaggio zaino in spalla da Java a Bali, e una volta ero stata nel nord di Sumatra a vedere gli oranghi. Questo mi offriva una serie di immagini su cui lavorare: l'Indonesia era accogliente, ma per certi versi schizofrenica. La vita quotidiana era disordinata e imprevedibile, ma nel caos generale emergeva una cultura estremamente raffinata, di vigorosi ballerini in delicati tessuti batik che roteavano le mani al suono di orchestre gamelan all'ombra di templi meravigliosi.
Erano immagini prettamente javanesi. All'epoca, nella mia mente, come in quella di molti stranieri, ammesso che si pongano il problema, l'Indonesia si riduceva a Java. In un certo senso è comprensibile. Pur occupando solo il 7% del territorio indonesiano, Java ospita il 60% degli abitanti, cioè 140 milioni di persone in un'area grande quanto la Grecia. La capitale Jakarta, come saprete, si trova a Java; gli amministratori javanesi hanno esteso la loro influenza in molti altri regni delle isole con vari gradi di successo a partire dal XII secolo. Quando la Reuters mi disse, con appena dieci giorni di preavviso, che mi sarei dovuta trasferire da New Delhi a Jakarta, non sapevo quasi nulla delle centinaia di altre culture che compongono la nazione. Potevo rievocare un'immagine della Bali induista - donne che ondeggiano con grazia reggendo sul capo le offerte per il tempio - oppure le immagini di una barriera corallina (Indonesia orientale), una giungla afosa (Sumatra o Kalimantan) o l'onda perfetta (l'estremo Ovest). Niente di più. Nei successivi due anni e mezzo, ogni volta che potevo sfuggire alla tirannia della cronaca quotidiana dei mercati finanziari, ho vagato per il Paese cercando di capire l'Indonesia. Andavo a caccia di oranghi e ribelli separatisti, visitavo cercatori d'oro illegali e immigrati altrettanto illegali. A Jakarta pranzavo con banchieri, star del cinema ed ex prigionieri politici. Man mano che il mio indonesiano migliorava, le conversazioni si facevano più interessanti. Ma tutto quello che scoprivo dimostrava quanto quel Paese fosse imperscrutabile. L'Indonesia inganna sempre le tue aspettative.
Lasciai l'Indonesia nel 1991, a seguito di alcune divergenze di opinione con i militari sulla correttezza delle mie cronache, e in particolare sulla guerra civile che si svolgeva nella provincia nordoccidentale di Aceh. Dopo la mia partenza, il portavoce dell'esercito, il brigadier generale Nurhadi Purwosaputro, mi mandò un messaggio scritto a mano sul blocco appunti dell'hotel Sheraton Towers di Brisbane:
Penso che il nostro rapporto sia sempre stato piuttosto formale (professionale) per via della sua posizione di giornalista. Stando così le cose, dovrei informarla, con sommo rispetto e in qualità di portavoce delle Forze Armate, che ha fatto un ottimo lavoro. Ha mostrato una profonda comprensione della gente, dello Stato, del governo e dei veri problemi che si trova ad affrontare l'Indonesia. Adesso la sua posizione è cambiata. È una persona comune che credo provi un grande affetto per l'Indonesia.
Proseguiva invitandomi a essere sua ospite se mai fossi tornata a Jakarta. Quello era un uomo che aveva mentito spudoratamente sulle violenze che i suoi colleghi stavano infliggendo ai cittadini indonesiani nelle province ribelli di Aceh, Papua e Timor Est e anche in altre parti dell'Indonesia. Si faceva intervistare di malavoglia, quasi con imbarazzo; a volte lasciava l'ufficio dal retro per evitare di rispondere alle nostre domande. Una volta mi chiamò molto dopo una scadenza per scusarsi di non avermi potuto dare un commento tempestivo su qualche massacro di secondaria importanza. La giustificazione: un sacro pugnale appartenente al comandante in capo era tornato, di sua iniziativa, al luogo di nascita del pezzo grosso. Il brigadier generale era stato occupato a organizzare il ritorno del pugnale a Jakarta, e non aveva avuto tempo per parlare con i giornalisti.
Gli insabbiamenti di questo tipo mi esasperavano, eppure trovavo anche un fascino sottile nell'idea che un...