Schweitzer Fachinformationen
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Sono sovrappeso, è vero. Anzi, diciamolo con sincerità: sono grasso. Nel momento in cui la narrazione ha inizio ho quasi 63 anni e peso ben 96,8 chili per un metro e settanta di altezza (in realtà un metro e sessantanove, ma non esageriamo ora con la sincerità).
Non è sempre stato così: da ragazzo ero di una magrezza davvero scheletrica. Un perduto amore di quel periodo mi disse ridendo che sulle costole del mio torace ci si sarebbe potuti esercitare per il pianoforte (lei lo suonava molto bene; mi sono poi chiesto se l'attrazione che provava per me dipendesse da questa mia estrema magrezza). A diciotto anni, quando mi chiamarono per la visita di leva, che allora ancora esisteva, pesavo circa 50 chili e il mio torace non arrivata agli 80 centimetri. Per questo motivo fui dichiarato "rivedibile", che nel burocratico idioma militare vuol dire "arrivederci e vediamo se tra un anno le cose sono cambiate". Può il torace di un ragazzo, devoto al lato oscuro della Forza atrofica, guadagnare diversi centimetri in dodici mesi? Pensavo di no, io, illuso. Invece alla nuova visita, l'anno seguente, un medico infame, nel prendermi le misure del torace, arretrò di un passo. Fu così che, partendo da 79 centimetri, in un anno eguagliai le misure di Marilyn Monroe: 92 centimetri, abile al servizio. Non finì qui - ma di ciò che accadde parlerò più avanti.
Ora, il problema è che non solo sono grasso (e va bene: se volete pronuncio la parola detestabile: obeso). È che soffro anche di cuore. Tre anni fa mi sentivo affaticato. A volte la notte mi svegliavo col cuore in gola. Andai dal medico che mi prescrisse una serie di esami. L'esito fu più che rassicurante. Quando portai i referti in ospedale - una eccellenza del nostro troppo bistrattato sistema sanitario -, la dottoressa che mi visitò mi disse:
"Senta, noi stiamo facendo una ricerca e abbiamo bisogno di volontari. Posso inserirla nei nominativi?"
"Cosa ci guadagno?"
"Un esame in più", fu la risposta, "così si toglie ogni dubbio residuo".
Accettai.
Quell'esame in più rivelò che avevo la coronaria destra occlusa al 95% e rischiavo l'infarto da un momento all'altro. Così mi operarono senza passare dal via, la settimana successiva, mettendomi uno stent. In camera operatoria i due chirurghi mi chiesero se volessi l'anestesia o no, aggiungendo: "Noi consigliamo di no, perché se il paziente è sveglio possiamo fargli domande, all'occorrenza, e lui le può fare a noi". Diedi loro fiducia e mi trovai, dopo venti minuti, con un tubicino che dal polso mi era arrivato al cuore, e i due chirurghi che parlottavano tranquillamente tra loro: "Cosa fai questo fine settimana?" "Forse gioco a calcetto". Quando passarono al menù della domenica, non mi trattenni più: "Sentite, potete parlare dei fatti vostri quando avete finito col mio cuore? Mi sentirei più tranquillo". Mi rassicurarono che erano concentratissimi, e comunque furono davvero bravi e l'operazione riuscì perfettamente. Il giorno seguente, all'atto delle mie dimissioni, uno dei due mi disse: "Lei non fuma, per fortuna. Per cui le do un solo grande consiglio: perda peso. Deve farlo, se vuole vivere a lungo".
Ormai lo sapevo: avevo uno stent nel cuore e una vita di stent davanti - e breve, se non correvo ai ripari. Che fare?
Sto per pronunciare un'altra parola fatidica che di giorno dilaga nei pensieri di noi grassi e di notte turba i nostri sonni irrequieti. La parola è: palestra.
Ora, io in palestra mi ero già iscritto, qualche anno prima, grazie a una offerta scontata per i dipendenti dell'azienda per la quale lavoravo. E devo dire che ho molto gradito i suoi principali servizi: la sauna, il bagno turco e il caffè vicino all'ingresso, che proponeva dolcetti strepitosi. Quanto al resto, come fare a mentire? Già il piano a piedi che ero costretto a fare per raggiungere la sala degli attrezzi era per me come scalare il Monte Bianco. Non dimenticherò mai la faccia dell'addetta quando, il primo giorno, chiesi: "Ma non c'è l'ascensore?" Fatto sta che dopo pochi mesi mi venne una dolorosa fascite alla pianta del piede, che dovetti curare con onde d'urto ancora più dolorose. "Lei va in palestra?", mi chiese il dottore, e alla mia risposta affermativa sentenziò: "Microtraumi dovuti agli attrezzi. Per un po' non ci vada", dimostrandomi l'esistenza di Dio e facendomi l'uomo più felice del mondo.
"Perda peso". Quell'indicazione perentoria dell'uomo con il camice bianco mi impensierì per qualche settimana. Poi il richiamo del lato atrofico della Forza riprese il sopravvento. Avrei dovuto seguire una dieta, lo so. E a casa ho decine di libri che promettono mirabilie al riguardo. Li ho letti tutti come si legge un libro che spiega perché la paura dei ragni - o degli spazi stretti, o del volo - è irrazionale: capisci che è così, ma la paura rimane. Certo, mi direte voi: come sono andato dal medico per curarmi il cuore, così dovrei andare da un medico che mi prescriva una dieta. Anche questo ho tentato. Anzi, prima del dietista ho scelto - a pagamento - una visita da un medico dietologo, seguendo il principio del "chi più spende meglio spende". Mi ha accolto una dottoressa dal caldo e simpatico accento meridionale, riempiendomi di consigli. I suoi convincimenti erano netti, le sue spiegazioni erano chiare: insomma, mi ha conquistato. Alla fine mi ha detto: "Guardi, lei mi è simpatico, non perda tempo con una ulteriore visita da un dietista, che so cosa le direbbe. Le dico tutto io". Sono tornato a casa confidando a mia moglie Doriana: "Sai, forse ho trovato la persona giusta". Dopo pochi giorni mi ha telefonato la struttura presso la quale ero stato visitato, che non nomino perché è molto seria e non voglio recarle alcun danno. "Guardi, ci dispiace moltissimo. La persona che l'ha visitata è una truffatrice: ha assunto le generalità di un altro medico, ma a quanto sappiamo non è neanche laureata. Siamo desolati, stiamo contattando tutti i pazienti da lei visitati per programmare un'altra visita con un vero medico". Deus non vult, mi sono detto. E al cortese addetto ho risposto: "La ringrazio della telefonata che dimostra la vostra correttezza, ma sinceramente preferisco a questo punto essere rimborsato". E così fu.
Fare moto. Quelli che a Milano vanno in bicicletta sono certamente da stimare: non inquinano, ci salvano dal cambiamento climatico e dall'effetto serra. Tutto giusto, però, quando li vedo pedalare, le immagini che mi vengono in mente sono quelle degli equilibristi senza rete, o di coloro che si gettano in un barile dalle cascate del Niagara. Ogni tanto ne muore qualcuno, travolto da un camion. La notizia finisce sui giornali e rafforza la mia paura. Peccato, perché quando ero studente universitario e pesavo 50 chili, nella brumosa Pavia del secolo scorso, io vivevo in bicicletta. A me piaceva moltissimo, andavo anche senza mani (che non è che sia questo granché, direte voi, ma per il mio spirito atrofico è una capacità rimarchevole, come saper suonare il pianoforte). Ancora all'inizio degli anni Novanta ho fatto due viaggi in bicicletta, entrambi in Francia, uno nel Perigord, l'altro in Provenza. In bicicletta ho scalato Les Alpilles, che quando ci sono ritornato in automobile, molti anni dopo, non mi capacitavo di come avevo fatto a riuscirci. Sì, la bicicletta è stata una mia passione. E questa passione per lunghi anni ha superato la suddetta Forza atrofica che scorre forte in me. Ma andare in bicicletta a Milano no, ho troppa paura.
Poi, a complicare le cose, c'è da dire che a diciotto anni il metabolismo è molto più elevato che a sessanta e passa. Da giovani si mangia e non si ingrassa, invece ora a me capita di mangiare due etti di qualcosa e ingrassare di tre. E, dopo essermi pesato, sconsolato mi chiedo: ma è davvero possibile tutto questo? Non viola qualche legge dell'universo? Mi aspetterei un aiuto almeno da parte della termodinamica, e invece nulla, anzi.
Come se non bastasse, qualche anno fa mi hanno diagnosticato la tiroidite di Hashimoto, che deprime il mio metabolismo e mi costringe a prendere una delle molte compresse quotidiane. Invidio Fassino, che magari mangia a quattro palmenti, ma i vestiti gli pendono addosso come a uno spaventapasseri. Invidio i miei coetanei molto tonici. Ma devo riconoscere che in fondo è giusto: loro si tengono in forma giocando a tennis, andando in piscina, correndo e facendo ginnastica. Guardandomi allo specchio, non posso non riconoscere che il mio addome sembra un soufflé malriuscito: io non gioco a tennis, detesto la piscina e quanto alla ginnastica.
Ora devo divagare. È che mi è ritornata in mente, nitidissima, l'immagine di me che faccio ginnastica alle sei del mattino, in maglietta e pantaloncini, nel buio pesto di un'alba ancora lontana, nel freddissimo dicembre del 1982 ad Asti. E questo è importante per il mio racconto - oh, se lo è. Vedrete.
Cosa ci facevo lì? Semplice: prestavo servizio militare. Due mesi di addestramento ("CAR" e "CAR avanzato" nella terminologia dell'epoca) presso il glorioso Battaglione di Fanteria "Guastalla", nella Caserma "Colli di Felizzano".
Era andata così: dopo essere stato dichiarato abile, avevo chiesto il rinvio per motivi di studio. E avevo rinnovato la mia richiesta di rinvio fino al penultimo anno di Università. L'ultimo anno invece no: decisi di rischiare e non presentare domanda di rinvio, sperando che non mi chiamassero. In fondo nella mia prima visita ero stato dichiarato rivedibile e, nonostante...
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