Schweitzer Fachinformationen
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L'estate è iniziata da poco e sotto i miei piedi si allunga una linea di costa che ho srotolato sulla scrivania come una carta geografica. Parte dall'estremità settentrionale dello Jylland, in Danimarca: sì, comincia proprio lì, da un'aguzza lingua di sabbia nello Skagerrak. Scende a cascata verso sud, si piega all'ingiù. Ecco, adesso la linea è cominciata. Traccia una costa e prosegue lievemente verso l'esterno. Poi, una alla volta, si aggiungono isole sabbiose che si susseguono come vertebre cervicali. E la linea va avanti, spezza i confini, arriva in Germania e oltre. Le isole si aggiungono come altre piccole vertebre in direzione dell'Olanda, ormai non è più solo una linea, ma un essere vivente.
Una linea di costa lunga un migliaio di chilometri. Da Skagen in Danimarca fino a Den Helder nei Paesi Bassi. Da una punta di sabbia a nord, che tenta di farsi largo tra gli inamovibili massicci della Norvegia e della Svezia, fino a Vadehavet, il Mare dei Wadden, dove si posano gli uccelli, dove si contano le ore e quell'essere vivente sussurra.
La linea mi è vicina da sempre, non solo in senso fisico, ma anche per le grandi carte geografiche della scuola, per la televisione o lo stradario che i miei tenevano in macchina. A guardarla insieme all'intera penisola, sembra la testa di uno jyllandese che sonnecchia con addosso un berretto buffo e un grosso naso che punta a est. Sempre vista dall'alto verso il basso e da sinistra verso destra. Non è mai capovolta, composita, frammentata o esagerata. Nella carta geografica sotto i miei piedi è semplicemente quel che è.
Però, se potessi controllare il tempo e aumentarne la velocità, come in quei video in timelapse in cui si vede una rosa che da bocciolo chiuso si trasforma in un fiore aperto, la linea prenderebbe vita. Il suo tracciato sarebbe sempre in movimento: eccola sporgersi in avanti, tirarsi indietro, aprirsi, curvarsi, spezzarsi, poi chiudersi e riaprirsi ancora. A tratti scomparirebbe sotto pesanti masse di ghiaccio, per poi risorgere in altra forma, danzando. Con la coda ora sinuosa come un'anguilla, ora agitata come una banderuola al vento. È una linea di coste sabbiose che vive di vita propria. Sempre sul punto di nascere, sempre sul punto di morire. Decisa dalla forza delle galassie che tutto attraversa, tracciata dalle tempeste, dal viaggio del Sole e della Luna, e dall'intervento umano, anche se questo è solo un problema transitorio, perché la linea ha tutto il tempo del mondo. È un racconto lungo e vivente che parla di maree, sempre soggetto ai ritmi circadiani, eppure misurato con l'eternità.
Una linea nel mondo, una sola. Poteva anche trovarsi altrove e accogliere altre esperienze, altre tragedie e riflessioni tacite. Cosa potrebbe dirci la linea che va da Barrow in Alaska a Cabo San Lucas in Messico? Una miriade di storie. E quella che va da Gibilterra a Capo di Buona Speranza? Non c'è limite ai racconti che si possono trovare su una linea. Il paesaggio, però, va oltre il racconto, così come il racconto va oltre se stesso. Per entrare in un punto della linea, creare un'apertura, guardare e imprimere un segno, ci vuole un essere umano. L'anno che viene toccherà a me affondarvi dolcemente la lama della scrittura.
La mia geografia personale ha avuto inizio in un sobborgo di provincia che potrebbe essere l'equivalente danese di Denver: Herning. Una giovane e vivace cittadina mercantile come quelle del Klondike, nel bel mezzo della brughiera jyllandese. Poi, quando avevo quattro anni, la mia famiglia si trasferì nove chilometri più a ovest. I miei avevano comprato un podere abbandonato nella vasta parrocchia di Sinding-Ørre. La zona era per metà verde, fertile e collinosa. Per il resto, era costituita da ampi tratti di bosco e brughiera sotto un cielo da prateria. Mi avventurai in quel territorio non appena cominciai a vagabondare da sola. È l'unico luogo al mondo di cui conosco ogni scorciatoia, ogni sentiero, dove so chi viveva in ogni casa, chi era figlio di chi. Conosco tutti i cognomi sulle lapidi del cimitero. Quando morirò, dovrete seppellirmi là.
La mia famiglia era legata al posto in cui vivevamo e comunque eravamo sempre attirati dall'Ovest. Da lì venivano i nostri antenati; la linea della costa era il nostro luogo d'origine. Sin dalla mia nascita, c'è una casetta nostra da quelle parti, defilata in un angolo deserto. Nelle belle giornate, quando avevamo voglia di fare una passeggiata in spiaggia, si prendeva la macchina e si andava dritto a ovest, era la via più breve per il mare. E in fondo a quella strada sbucavamo a Vedersø Klit, dove superavamo le dune armati di coperte, thermos e borsa frigo.
Fu lì che una volta, a undici anni, un'onda quasi mi portò via. Era agosto e stavo camminando per mano a mia madre. Non avevo idea della forza che potesse avere il mare. E così, mentre ci schiaffeggiava le caviglie a ogni passo, l'acqua a un tratto mi prese e mi trascinò via. Mia madre mi afferrò per una gamba, ma scivolammo entrambe sui sassi, poi fummo liberate. Dopodiché rimanemmo lì a piangere. Graffi sulle gambe, sangue. Mia madre mi stringeva la mano, non voleva lasciarmi. Da allora, quelle onde che nelle belle giornate arrivano dal Mare del Nord, accavallandosi lunghe ed eleganti, le chiamo Valchirie. Se ci riescono, ti portano in mare. Ne ho paura, ma ogni volta che le vedo il mio primo pensiero è l'amore.
Mentre la mia famiglia guardava a ovest, il resto della Danimarca guardava a est. Era lì che si trovavano le grandi città, e dunque anche i centri di studio. Era lì che emigrava chi voleva «diventare qualcuno». Bisognava urbanizzarsi, parlare senza accento, esprimere tutto il proprio potenziale. Anch'io, come tanti topi di biblioteca della mia generazione, mi trasferii lì. Nella mia prima tesina al dipartimento di Studi nordici dell'Università di Aarhus scrissi: «Ogni identità nasce da una scissione.» Formulai quella frase in un edificio di cemento della zona ovest di Aarhus, dalle cui finestre si vedeva il mio luogo di origine. Lontano, lontanissimo da casa.
A pensarci adesso, quella scissione da cui nasce ogni identità mi ha fatto cucire il mondo con grosse imbastiture. Migrai a est, per poi tornare a ovest. Mi specializzai in lingua e letteratura svedese, quindi a est, ma a permeare la mia vita quotidiana erano il danese e l'inglese, quindi a ovest, poi di nuovo a est, zigzag, zigzag, zigzag. Zigzagai di qua e di là finché non approdai a Copenaghen. Un giorno, dopo tanti anni vissuti nella capitale, ero sdraiata a terra nel mio appartamento. Al piano di sotto abitavano degli spacciatori di hashish e accanto una ragazza che ascoltava musica a tutto volume. Al mattino, quando scostavo le tende, vedevo un caseggiato e il salone di una parrucchiera. Il cortile era assolutamente insignificante, ma in compenso nei dintorni c'erano parchi e cimiteri alberati. Ogni giorno tentavo di ritrovare il paesaggio che mi mancava tanto negli spazi verdi della metropoli, ma non ero mai sola. C'era sempre qualcun altro. Così eccomi là, sdraiata a terra sopra lo spaccio di hashish. Avevo scaricato un'app sul telefono con i rumori della natura dell'isola di Bornholm. A occhi chiusi, ascoltavo lo sciabordio dell'acqua che si frangeva sugli scogli del Baltico. Quei rumori venivano dall'estremità orientale del nostro piccolo paese. Il suono delle bonarie onde estive si mescolava dolcemente al garrito dei gabbiani. Ogni tanto si aggiungeva il cinguettio di un uccellino o il gorgoglio di un ruscello, poi lo scroscio di un peschereccio che navigava tranquillo verso l'orizzonte o perfino il canto di un usignolo.
Ero sdraiata a occhi chiusi, come dicevo, quando a un tratto pensai: voglio una mareggiata. Voglio la burrasca impetuosa da nordovest, voglio vederla picchiare gli alberi fino a farli strisciare a terra. Voglio l'ammofila, l'orzo delle sabbie, l'empetro nero e l'erica che mi pungono le gambe a sangue, voglio il sale sulla pelle. Voglio ampie radure, terre deserte, distese battute dal vento, dune sabbiose e un linguaggio del corpo che capisco. Voglio svegliarmi al mattino sotto un cielo grigio e triste che nel giro di un secondo, all'arrivo della luce, può spalancare uno spazio vastissimo. Orizzonte, ecco cosa voglio, e solitudine, una solitudine sana. Voglio intimità, un'intimità autentica. Non voglio più essere diversa da come sono. Poi aprii gli occhi e mi tolsi Bornholm dalle orecchie. La tortura perpetua dei bassi dello stereo della vicina, l'odore di hashish dal pianterreno e le delusioni amorose erano ancora radicate dentro di me. Però avevo appeso con il nastro adesivo una carta geografica alla porta del soggiorno. Perché sappiamo sempre tutto ancora prima di saperlo. Così lasciai l'appartamento in affitto. Tre mesi di preavviso. Non avevo idea di dove andare, ma una cosa era certa: volevo andarmene.
Mentre la mia vita copenaghese si erodeva lentamente, la casa dov'ero cresciuta nella vasta brughiera dello Jylland fu espropriata. Poco lontano sarebbero sorti un super ospedale e una nuova autostrada. La casa si trovava proprio nel terreno individuato dall'ente stradale generale per costruire una corsia di accelerazione. Non c'era niente da fare. I miei genitori dovettero inscatolare quarant'anni di vita insieme e trasferirsi qualche chilometro più in là, vicino alla chiesa. L'ultima volta che visitai la mia casa d'infanzia fu nel gennaio 2014. Me ne ero appena andata da Copenaghen senza una destinazione precisa. Vivevo provvisoriamente in una ex scuola a Dollerup Bakker, mentre la mia vita di scrittrice...
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