Zuihitsu
«Il broccato cinese. Una lunga spada ornamentale. I solchi del legno di cui son fatte le statue di Buddha. Un lungo e scuro grappolo di glicine sorretto da un ramo di pino. I guardarobieri di sesto grado: essi possono indossare le vesti con disegni a rilievo, che non sono permesse neppure ai giovani di alto lignaggio, e anche, per privilegio di carica, la splendida veste azzurra.»8
Ero arrivato qui, per di più a lume di candela, con il fruscio della risacca come un applauso in lontananza. Da Singapore avevo preso il pullman, ero entrato in Malesia, fino a una località sulla costa da dove con una barchetta di pescatori potevo partire per Pulau Tioman. La traversata verso l'isola sul liscio Mar Cinese Meridionale durava tre ore. La barchetta attraccò a un lungo pontile proiettato nel mare, ma io non volevo sbarcare lì, qualcuno mi aveva detto di una piccola località più a nord che era molto tranquilla. Era vero. Una spiaggia circondata su tutti i lati dalla foresta pluviale. Un investitore musulmano ci aveva messo un paio di capanne e me ne aveva affittata una. La luce giallognola di una lampadina appesa a un filo che a volte funzionava e a volte no, un materasso per terra, una veranda sgangherata rivolta verso il mare, un gruppo di bambini di Kuala Lumpur che dopo un giorno scomparvero. Il bagno in comune condiviso con una tedesca che alloggiava all'altra estremità della spiaggia e passava tutto il giorno sull'amaca a leggere. Non un villaggio, soltanto qualche capanna fino al punto in cui cominciava la foresta frusciante, crepitante, stridula. Niente alcol, notti di grande silenzio, giornate calde. Nuotate sopra la barriera corallina con la maschera. Palme da cocco come un colonnato dietro la spiaggia. Di notte il rumore del generatore, ma il neon bianco che vedevo lontano sul pontile non arrivava fino alla mia capanna. Per questo leggevo fuori al lume di una candela che avevo infilato in una conchiglia, una tridacna pescata personalmente in fondo al mare, e quello che leggevo era il diario di Sei Shonagon, dama di corte giapponese del X secolo. Così cercavo di far defluire dalla mia mente la Birmania e prepararmi al Giappone. Fu una sosta di appena qualche giorno, durante la quale venni punto da un insetto di cui mi sarei portato addosso una bomba a orologeria per sei mesi, ma questo allora non lo sapevo. Non facevo niente, mi inoltravo nella foresta finché non diventava troppo fitta, stavo seduto sotto le palme a guardare la marea. Soprattutto di notte avevo la sensazione che il resto del mondo non esistesse. Non c'è posto al mondo con più stelle, la candela illuminava soltanto gli immediati dintorni, permettendomi di sprofondare con l'immaginazione in un'altra epoca e un altro luogo. Non ero dove mi trovavo, osservavo da ospite invisibile la vita di corte giapponese di oltre mille anni prima, un viaggio nel tempo. Poi venne il giorno in cui dovetti ripartire con la barchetta che mi venne a prendere. Una barchetta, un pullman scassato, un aereo. Ora (diciamo che sia ora) sorvolo l'Asia diretto a Tokyo. Piano piano la distesa bruna della terra cinese scivola via sotto di me. Ritrovo il punto dov'ero arrivato: «Gli assistenti dei guardarobieri brillano di un'inattesa fama: consegnano i documenti con gli ordini dell'Imperatore e ai grandi banchetti portano i vassoi di castagne dolci e sono per questo accolti con compiacimento dallo stesso Primo Ministro, al punto che tutti si chiedono da quale cielo siano scesi così angelici giovani.» Guardo fuori e penso che quello che sto facendo è ridicolo. Perché mai la lettura delle note di Sei Shonagon dovrebbe prepararmi al Giappone di mille anni dopo? Chiudo gli occhi e so cosa mi aspetta: la volgare ressa di Tokyo, le meccaniche voci femminili, eternamente ripetute, all'aeroporto e sul pullman. Perché cercare quello che non c'è più? Non ne avevamo già parlato?
Eppure, con la stessa convinzione si può dire che un paese non cambia ogni momento, che c'è stata una continuità di tempo e di storia dalla corte imperiale di Heian a oggi, che nella storia del Giappone esiste una serie di costanti e che il vecchio aiuta a comprendere il nuovo. E poi in questo viaggio voglio fermarmi a Tokyo il meno possibile e dedicarmi piuttosto a visitare il mondo antico delle campagne, rivedere cose di cui conservo un ricordo vago. In un libro bellissimo di Mark Holborn, The Ocean in the Sand - Japan: From Landscape to Garden, c'è scritto: «Dalla lettura del diario di Sei Shonagon emergono la precisione con cui la vita di corte di Heian seguiva le stagioni e la grande importanza che veniva attribuita al calendario; le festività moderne indicano chiaramente fino a che punto quella tradizione esista ancora. Ma c'è un'altra chiave per spiegare l'origine di questa sensazione di unità con il mondo della natura, che nasce da una conoscenza arcaica e intuitiva e mostra molto chiaramente il corso e l'equilibrio delle stagioni. Questa chiave è il giardino.» I giardini, voglio vedere quelli. Giardini e paesaggi, voglio camminare. E leggere il diario che in giapponese si intitola Makura no soshi, «libro da guanciale», «una sorta di diario intimo e informale che uomini e donne aggiornavano la sera quando si ritiravano nelle loro stanze e conservavano nelle vicinanze dei loro giacigli, probabilmente nei cassetti dei guanciali di legno, in modo da averlo subito a portata di mano per annotare le loro impressioni». Note del guanciale è stato il precursore di un genere tipicamente giapponese noto con il nome di zuihitsu, scritti di circostanza. Un genere tuttora molto praticato. Appena sarò a Tokyo comprerò un quaderno per scrivere il mio zuihitsu.
Pioggia e vento, cielo grigio, il nord dopo i tropici. Non è cambiato nulla. Di nuovo voci femminili che non puoi credere appartengano a un corpo vero. Ti raccontano il quando e il dove, gorgogliano saluti di benvenuto e di addio. Forse non appartengono a nessuno. Le senti su ogni autobus e treno, in ogni ascensore e sulle banchine di tutte le stazioni, a bordo di aerei e pullman. Chissà, magari hanno già fabbricato una donna che sa parlare e sta trasmettendo i suoi messaggi per tutto il Giappone. Una donna in alluminio plasmabile, con labbra di microchip e un sistema circolatorio di celluloide. La sua voce evoca una cascata e profuma di menta, non può imprecare né invecchiare. Lascio che mi avvolga mentre la pioggia scorre sui finestrini. Il traffico è intenso sulle sei corsie, ci vuole più di un'ora e mezzo per arrivare al centro di Tokyo. Passiamo davanti al Palazzo Imperiale, riconosco gli alti argini oltre il fossato e quel portale così enorme che ho varcato una volta, il giorno del compleanno dell'imperatore. Gli edifici dietro quelle porte rimangono indistinti, schermati dalla pioggia. Da qualche parte su quell'arca galleggiante abita il discendente di un'antichissima dinastia divina venerata per oltre duemila anni. Sei Shonagon sarebbe lieta di sapere che dopo mille anni esiste ancora un imperatore, anche se non è più un dio. Ventisette milioni di abitanti vivono entro un raggio di trenta miglia dal Palazzo, spiega la gorgogliante voce di ragazza. Quando scendo un rappresentante di questi ventisette milioni mi viene incontro a braccia aperte e poi precipita a terra come un toro ferito. La febbre del sabato sera.
Strana vita quella di un corrispondente. Da parte mia, io non sono che uno straniero di passaggio, che vaga ed erra per il paese. Karel van Wolferen («Wofurun» in Giappone) vive qui già da quasi vent'anni. È il corrispondente del quotidiano NRC Handelsblad e mi ha invitato a stare da lui. In passato ha letto il mio libro Philip e gli altri, che lo ha convinto a viaggiare proprio come il protagonista, solo più lontano. Che fine abbia fatto il protagonista del libro non lo sappiamo, ma Karel non è mai più tornato.
Vive in una casa con un giardino, che in questo paese dove tutto si misura a mezzi metri è un vero lusso, e ha una compagna giapponese e un cane distinto di nome Philo. A dire il vero, Philo è una signora e Karel insiste che bisogna parlare di lei al femminile. È una chow chow abbastanza massiccia e provvista di una splendida pelliccia, è un piacere andare a passeggio con lei. Dormo per terra, infilato nel futon, non so bene come descriverlo. Angela Carter parla di «un servizio mobile di biancheria da letto» e io mi attengo a questa definizione. Fa freddo e perciò di notte tengo il mio Sei Shonagon con mezza mano fuori, quando riesco a leggerlo, almeno, perché Karel continua a darmi tutta una serie di ritagli di giornali giapponesi scritti in inglese, spesso sottolineati in rosso furibondo dove lui non è d'accordo. Questo paese è la sua passione, anche se non lo ammette tanto facilmente. Pensa che il Giappone non capisce il mondo e il mondo non capisce il Giappone, e in effetti sembra che abbia ragione. Ogni mattina lo trovo, a volte anche molto presto, davanti al grande tavolo ricoperto di Japan Times e Mainichi Daily News, tutto intento a mormorare e sottolineare.
Comunque è una vita strana. Il paese per il quale lavori diventa astratto, il tuo unico filo di collegamento è in realtà costituito dal giornale e da un paio di turisti che passano per...