Le prime 9 buche
1. Un campo da golf non è mai uguale a un altro. Quando si va «in trasferta» - cioè quasi sempre, quando si è in giro per tornei - non è come andare a giocare a pallone in uno stadio diverso da quello di casa. Per un calciatore le dimensioni del campo sono sempre le stesse, il manto erboso può essere in uno stato più o meno buono, ma l'unica vera differenza sta nell'avere il tifo dello stadio contro o a favore. Nel golf non ci sono le curve che ti sostengono o ti urlano contro, ma in compenso cambia tutto il resto. Cambiano la disposizione delle buche, gli ostacoli, la consistenza o la pendenza del terreno che, naturalmente, determinano un certo modo di rimbalzare della pallina. Cambiano ovviamente le condizioni atmosferiche: si pensi a quanto è importante il fatto che un percorso sia in una zona ventilata o no.
Insomma, la prima volta che metti piede in un campo diverso da quello in cui hai sempre giocato, un po' fa paura. Ti senti quasi sperso, senza punti di riferimento. Non dico che improvvisamente ti ritrovi a fare un altro sport, ma quasi. Quando sei ragazzo, per anni ti alleni nello stesso posto, fai quelle stesse trentasei buche migliaia di volte, provi i colpi sul putting green o sul campo pratica. Arrivi a conoscere ogni filo d'erba, ogni refolo di vento. E poi, a un certo punto, ti ritrovi in un campo da golf in Sudafrica, o ad Abu Dhabi, o in Florida, dove tutto è differente.
Ormai, a dire la verità, non ci faccio quasi più caso.
È il bello dell'esperienza. E comunque mi adatto facilmente, riesco a sintonizzarmi in poco tempo su qualunque tipo di percorso e di situazione.
Dovete sapere che nel circuito professionistico si hanno a disposizione un paio di giorni per testare il campo dove si svolgerà il torneo. In genere funziona così: il lunedì si viaggia, il martedì e il mercoledì si prova il percorso, da giovedì a domenica si svolge la gara vera e propria. Ovviamente la prova campo nei due giorni precedenti la fase agonistica vera propria è fondamentale: è in quell'occasione, facendo «a freddo» uno o due volte il giro del percorso, che si individuano le possibili difficoltà e le zone di rischio, anche in rapporto al proprio stile di gioco e alle proprie caratteristiche tecniche.
Io, per esempio, sono tra quelli che prediligono i campi difficili.
Qui però bisogna spiegare che cosa si intende per «difficile», in termini golfistici, e per spiegarlo devo entrare un po' nello specifico e utilizzare una terminologia tecnica, che peraltro qualunque giocatore di golf della domenica conosce benissimo.
Bisogna sapere che fra il punto di partenza, il cosiddetto tee (dal nome del pezzetto di legno o di plastica che si conficca nel terreno e sul quale viene messa la pallina) e la buca si estende quello che si chiama fairway, vale a dire la parte del campo in cui l'erba è tagliata corta, quella cioè in cui è più facile tirare. La «retta via», o «via maestra», letteralmente. I fairway cambiano a seconda dei campi: possono essere più o meno ampi e non sempre procedono dritti, a volte piegano a destra o sinistra della buca, nel cosiddetto dogleg. Ai lati del fairway c'è invece il rough, la zona in cui l'erba è più alta e dove è bene non finire per non inguaiarsi. Prima di arrivare all'area del green, cioè la zona intorno alla buca dove l'erba è più rasata e dove si gioca di precisione con il putter, spesso si devono superare degli ostacoli. Ad esempio i bunker, quei banchi di sabbia o ghiaia posti in prossimità del green: quando ci si finisce dentro, uscirne non è per niente facile e si deve ricorrere a una tecnica particolare. Poi ci sono gli «ostacoli d'acqua frontali», indicati da paletti gialli, e quelli «laterali», segnalati invece con paletti rossi. In pratica si tratta di laghetti, ruscelli, pozze profonde e vuote, da cui è sempre difficile giocare e in cui è invece frequente perdere una palla. Altra cosa sono poi le «ostruzioni», in genere oggetti artificiali che si frappongono alla traiettoria della palla e che in molti casi rendono impossibile il colpo che si vorrebbe fare. Per completare il quadro, vanno tenute in considerazione anche le condizioni del terreno, e cioè se è più o meno compatto. In certi campi quando la palla arriva da 150 metri tocca terra e si ferma lì perché il fondo è morbido; in altri rimbalza per 15 metri.
Tenuto conto di tutte queste variabili, un campo «difficile» è - per farla breve - un campo nel quale i fairway sono stati ristretti ed è quindi più facile finire nel rough, con la palla che va storta. Sono campi in cui il terreno è molto più duro, dove la pallina rimbalza in modo imprevedibile, con un sacco di saliscendi, pendenze e ostacoli di vario tipo. Ovviamente tutto ciò si riflette sul par, cioè il numero di colpi previsto per completare una buca. Faccio un esempio: se normalmente in allenamento per fare 18 buche impiego 68 colpi, agli Open d'Italia ne devo fare 72.
Come ho detto, più un terreno è difficile più mi trovo bene. Questo perché il mio è un tipo di gioco molto regolare, non sono uno che «spara» subito la palla lunghissima. Sono bravo a recuperare intorno ai green, al contrario di altri che hanno un tiro più lungo ma se finiscono nel rough se ne tirano fuori con molta fatica. I campi difficili premiano le caratteristiche come le mie. Qualcuno potrebbe anche dire, più semplicemente, che sono uno cui piace soffrire. E forse non sbaglierebbe del tutto.
La prima volta che mi ritrovai in un campo diverso da quello del Circolo Golf Torino fu a Zoate, vicino a Milano. Era un torneo under 18, io avevo dieci o undici anni ed ero ovviamente uno dei più piccoli. Fu una bella emozione, quasi come salpare in mare aperto per la prima volta. Un brivido altrettanto forte, forse anche di più, lo provai qualche anno più tardi, nella prima occasione in cui giocai all'estero. Eravamo volati in Inghilterra, per un torneo under 16. Era il 1996, e incredibilmente quello fu uno dei pochi tornei che riuscii a vincere durante l'adolescenza. Al principio era una sfida tra la squadra italiana e quella inglese, quattro contro quattro, poi gli ultimi due giorni si giocava individualmente. Ricordo che in finale battei Justin Rose, un ragazzo inglese di origine sudafricana che oggi è diventato uno dei maggiori giocatori al mondo, stabile tra i primi venti o venticinque del ranking. Fu una finale combattutissima, ma riuscii a spuntarla io. Non potevo crederci: la mia prima vittoria, per di più formato export! Ogni tanto quando incrocio Justin in qualche torneo in giro per il mondo gli ricordo quel giorno e ci facciamo una risata assieme. All'epoca probabilmente né lui né io avremmo potuto immaginare la strada che avremmo fatto.
Al di là della vittoria, rammento quell'avventura inglese come una specie di battesimo del fuoco. Fu un'esperienza stranissima, anche perché certe cose alle quali eravamo abituati frequentando il Circolo Golf Torino, laggiù non esistevano. Per esempio non c'era il campo pratica, cosa che mi stupì parecchio. Qui da noi quando arrivi al campo prendi un secchio di 25 palle e prima di mettere piede sul percorso vero e proprio ti alleni a fare dei tiri. Quando chiedemmo dov'era il campo pratica, ci guardarono straniti. «Qui si parte dalla buca 1, di quale campo pratica state parlando?» ci risposero. Il professionista di circolo non faceva lezione, se ne stava semplicemente lì a vendere i bastoni in negozio, la gente arrivava e giocava. Tutto un altro mondo, insomma.
2. In quegli anni, trasferte inglesi a parte, la mia vita è passata via tranquilla, tra libri e giornate al Circolo. Non mi vedevo ancora nei panni del giocatore professionista, ero solo uno studente del liceo innamorato del golf. Non mi allenavo ancora tutti i giorni, al massimo un paio di pomeriggi la settimana e naturalmente ogni sacrosanto weekend.
La vera svolta è stata verso i ventidue, ventitré anni, anche se già verso la fine del liceo, avendo preso la patente e non dovendo quindi più chiedere ai miei genitori di portarmi a Fiano, avevo intensificato i ritmi. Ma a quei tempi non sentivo ancora la pressione del risultato, il dovere del miglioramento immediato - infatti sono rimasto allo stesso livello per diversi anni, prima del «cambio di marcia» decisivo - e quindi mi godevo quello che sicuramente era più di un hobby ma che per il momento rimaneva una grande passione.
Le cose cambiarono con l'inizio dell'università.
Il Politecnico esigeva un impegno totale, e credo sia stato proprio in quel momento che mi sono reso conto di quanto fosse importante il golf per me. Se fosse stato semplicemente uno sport come un altro, qualcosa che facevo nel tempo libero come andare a correre al parco due o tre sere alla settimana o come la partitella a calcio con gli amici, senza dubbio lo avrei accantonato, tutt'al più lo avrei relegato a quei pochi ritagli di tempo che lo studio all'università mi...