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«Non ti sembra piccolo il campo?» chiesi.
Kirill lo osservò. «Sì, è vero.»
Non riuscivo però a capire perché avessi quell'impressione, e neppure lui.
Eravamo sul campo 3 del vecchio West Side Tennis Club di Forest Hills, nel Queens, e ci stavamo scaldando: stretching alle spalle e ai polsi, corsa sul posto, allunghi, salti sugli avampiedi. Avevo deciso di partecipare all'edizione 2013 del campionato nazionale senior sull'erba USTA (United States Tennis Association), e qualche giorno prima dell'inizio del torneo gli organizzatori avevano messo a disposizione dei partecipanti alcuni campi per potersi allenare.
«Forse è per via della superficie. l'erba», proposi per dire qualcosa. «O forse perché le linee di gesso sono sbiadite.»
«O magari perché non c'è erba oltre quella del campo», disse Kirill, indicando le strisce di terra battuta poco oltre le righe di fondo.
Inoltre, a ben guardare, sembrava che all'interno delle aree di servizio, e soprattutto in prossimità delle linee di fondo, l'erba - loglio, per l'esattezza - fosse stata maltrattata da un mediocre golfista impegnato a migliorare il suo chip shot. C'erano zolle divelte dappertutto, conseguenza, scoprimmo poi, di un'infestazione estiva di punteruoli.
Ciò nonostante, eravamo entusiasti.
«Pazzesco», disse Kirill guardandosi intorno mentre provava colpi a vuoto con la racchetta.
Eccoci là, una sera di fine estate, un accenno d'autunno nell'aria che rinfrescava rapidamente, la luce del crepuscolo, lo skyline di Manhattan che si stagliava su uno sfondo striato di viola e arancione. E, incombente, la sagoma scura del vecchio stadio a ferro di cavallo di Forest Hills, dove si erano giocati gli US Open della mia giovinezza, e dove il tennis aveva incorporato ciò che mi piace chiamare "le sue riforme newyorchesi": tie-break velocizza set, montepremi uguali per uomini e donne, ovattati match in notturna sotto i riflettori. L'ultimo di questi Open venne giocato a Forest Hills nel 1977, dieci anni prima che Kirill nascesse. Per lui era una scoperta sapere che un tempo gli Open si erano tenuti in quello stadio. Forse molti suoi coetanei ne erano a conoscenza - se ne erano a conoscenza - grazie a Wes Anderson e al suo Tenenbaum, in cui Forest Hill, con il nome di Windswept Fields* è lo stadio in cui il prodigio del tennis Richie Tenenbaum (Luke Wilson), con una fascia per capelli alla Björn Borg e una polo Fila, in campo ha ciò che può essere descritto come un crollo nervoso esilarante e toccante allo stesso tempo. (Nel film, il campo in erba è un tappeto verde impeccabile.)
Kirill era il mio istruttore di tennis professionista, il mio coach di vecchia data, il mio giovane amico. E aveva meno della metà dei miei anni.
Ero prossimo al mio sessantunesimo compleanno, e quella sera infrasettimanale di settembre mi trovavo su quel campo in erba perché ero intenzionato a diventare un serio tennista amatoriale, anche se non ero esattamente certo di cosa questo significasse. Il miglior tennista di sessanta-e-passa-anni del mio club nella zona residenziale di Westchester? Qualcuno che avrebbe trascorso la sua cosiddetta "età bis" - gli anni senza più figli, quelli in cui si rallenta un po', tra la mezza età e qualcosa di spaventoso - come l'atleta che non era mai stato?
Ero entrato a Forest Hills non come testa di serie, come quasi qualsiasi altro membro della USTA tra i sessanta e i sessantacinque anni abbastanza bravo o masochista da iscriversi al torneo. Su quei campi si sarebbero sfidati i migliori tennisti over sessanta del Paese. Io giocavo da appena sei anni. Ero a tutti gli effetti un principiante. Non facevo parte del loro campionato, ma volevo capire quale fosse il mio, di campionato.
Kirill mi allenava e mi blandiva, per ore, ogni settimana, perché potessi arrivare fin lì, ovunque fosse quel lì. Mi allenavo con lui quasi dall'inizio, anche se avevo cominciato a fare sul serio, con instancabile determinazione, da appena due anni.
Nel corso di quel torneo avrei affrontato uomini che giocavano a tennis da sempre, e molti di loro avevano fatto parte di squadre universitarie. Come me, avevano tutti superato da poco i sessanta, il che voleva dire che stavano invecchiando, con tutto ciò che questo comporta. A differenza mia, però, per loro invecchiare significava diventare più maturi, più saggi, per certi aspetti migliori. Io, dopo centinaia e centinaia di ore di massacranti esercizi con Kirill, e innumerevoli partite contro amici, membri del mio circolo e avversari di altri club, non ero ancora sicuro di quanto fossi bravo - bravo per un sessantenne, intendo - e, a dirla tutta, neppure ero certo di cosa cercassi nel tennis.
Inoltre, non avevo mai giocato un match sull'erba.
Quella sera Kirill e io cominciammo con un po' di mini tennis, posizionandoci ognuno su un lato della rete, colpendo lentamente le palle con il piatto della racchetta, sciogliendo lo swing e provando gli effetti. Kirill mi spronava a concentrarmi, a notare come il rimbalzo della palla, sull'erba anestetizzante, non andasse più su delle mie ginocchia piegate; a fare caso al fatto che i fili d'erba aggrovigliati, o ciò che ne restava, accentuassero il backspin e il sidespin delle palle. Quando qualche minuto dopo ci allontanammo entrambi dalla rete, Kirill mi suggerì di sistemarmi a pochi centimetri al di qua della linea di fondo.
«Il tuo gioco non è molto adatto a questa superficie, Gerry», disse, fermo sulla linea di fondo nella sua metà campo. Aveva parlato a voce abbastanza alta per farsi sentire da me, e quindi anche gli altri partecipanti al torneo che si stavano allenando sui campi ai lati del nostro l'avevano sentito. Ciò che stava dicendo - e aveva ragione - era che il mio consueto approccio, quello che adottavo sui campi in terra del club, non avrebbe funzionato sull'erba. Sulla terra battuta ero solito accamparmi circa mezzo metro al di là della linea di fondo, per dare alla palla in arrivo il tempo di scendere, dopo il suo alto rimbalzo, fino alla mia area di battuta preferita, tra l'anca e il ginocchio; in quel modo avevo più tempo per rispondere. Correre da una parte all'altra del campo, in avanti o all'indietro, per me non era mai stato un problema: velocità e rapidità erano gli unici vantaggi che avevo sulla maggior parte dei tennisti della mia età.
Ma giocare da fondocampo sull'erba non porta punti. Su questa superficie, avrei dovuto avanzare per ribattere palle con poco rimbalzo, e continuare a muovermi per arrivare a rete. Avrei dovuto trovare altri modi per chiudere in fretta gli scambi: non ci sarebbero stati molti rimbalzi prevedibili per palleggiare. Avrei dovuto ricorrere al serve and volley quando avevo il servizio, e al chip and charge nei giochi in cui rispondevo, in particolare se l'avversario avesse servito sul mio rovescio. Avrei dovuto cercare coraggiosamente gli angoli con dritti anticipati, piatti e rapidi. Per farla breve: contro giocatori che con tutta probabilità sarebbero stati migliori di quelli che affrontavo di solito, avrei dovuto giocare uno stile di tennis che non avevo mai giocato. In un torneo nazionale.
Kirill mi tirò una decina di palle corte, e io le mandai quasi tutte a rete.
«Passi brevi, Gerry», mi consigliava lui con pazienza. «E stai più basso. Più basso, e sulle punte dei piedi. Stai piegando le ginocchia ma ti appoggi all'indietro sui talloni. Sei sbilanciato all'indietro quando la palla si avvicina, non sei coordinato per tirare il colpo.»
Allargai le braccia e rivolsi i palmi delle mani verso il cielo che stava scurendo. Kirill si avvicinò alla rete e mi mostrò cosa voleva che facessi. Si muoveva come un gatto. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire come, proteso in avanti sulla punta dei piedi, e piegato sulle ginocchia ma in equilibrio, riuscisse a prendere piena velocità con pochi passi brevi, a scattare. Era un atleta: semplice, per così dire.
«Ancora una cosa», aggiunse. Alzai gli occhi al cielo: come se già avessi imparato quel particolare movimento che mi aveva appena spiegato! «Sull'erba è molto importante fermarsi e coordinarsi prima di colpire. Anche se sei in corsa. Non riuscirai a prevedere il rimbalzo della palla come invece succede sul duro o sulla terra. Devi fermarti e guardarla.»
C'era dell'altro: «Accorcerei anche il tuo swing. Se giochi dentro la linea di fondo, non ci sarà tempo per portare la racchetta completamente all'indietro. Preparala in anticipo, il prima possibile, ma non spostarla troppo dal corpo. Non ne avrai il tempo. Rischieresti di colpire la palla in ritardo. E quando scenderai a rete per prendere una palla corta, tieni la racchetta allungata davanti a te e bassa. Le palle corte non rimbalzano sull'erba».
La luce stava calando, ed era sempre più difficile vedere la palla. Palleggiammo per altri dieci minuti. Mi piaceva la morbidezza dell'erba sotto i piedi. Avrebbe dovuto essere scivolosa, ma a me non dava quella sensazione. Sembrava spugnosa, indulgente. Stavo cercando aspetti positivi.
A fine allenamento dissi a Kirill che...
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