VENT'ANNI DOPO... PIÙ ALTRI VENTI PRIMA
Il viaggio raccontato in queste pagine lo feci nel novembre 1974, partendo da Hanoi, dove lavoravo come corrispondente dell'"Unità". Attraversai il Vietnam del Nord, ancora in guerra, la Cina, dove ancora Mao era presidente, poi la Mongolia e con la Transiberiana raggiunsi Mosca. Un viaggio non banale ancora oggi, ma che allora sembrava quasi impossibile e infatti organizzarlo non fu semplice.
In quei giorni comunque non pensavo certo di scriverci un libro, avevo progettato un reportage per l'"Unità" se non altro per giustificare la mia scelta, che a Roma appariva almeno bizzarra. Ma non lo scrissi: arrivato in Italia mi godetti le vacanze e non pensai più al viaggio. Lasciavo il Vietnam per la prima volta dopo quasi due anni, e non erano stati anni facili.
Il 1974 - vale la pena ricordarlo - era stato un anno ricco di avvenimenti. In Italia a maggio il referendum per abrogare la legge sul divorzio non passa e nello stesso mese un attentato terroristico contro una manifestazione antifascista a Piazza della Loggia a Brescia provoca otto morti e oltre cento feriti; in agosto una bomba esplode in una carrozza sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro nell'Appennino emiliano, i morti sono dodici e i feriti quarantotto. Entrambi gli attentati sono attribuiti al terrorismo "nero". Nell'aprile le Brigate Rosse con il sequestro del giudice Mario Sossi si impongono all'attenzione del Paese ma in settembre il loro capo Renato Curcio viene arrestato.
Cadono due dittature. In Portogallo i militari insorgono contro il governo di Marcelo Caetano, successore di António de Oliveira Salazar, ponendo fine a una dittatura fascista che durava dal 1926, e danno inizio alla Rivoluzione dei Garofani che riporta il Paese alla democrazia. In Grecia finisce la dittatura dei Colonnelli che durava dal 1967, il ritorno di Konstantinos Karamanlis permette elezioni e un referendum che mette fine alla monarchia. Ma l'avvenimento più importante dell'anno, anche per le conseguenze che avrà sulla guerra del Vietnam, è l'uscita dalla scena politica del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Travolto dallo scandalo Watergate, il 9 agosto si dimette per sfuggire all'impeachment.
In Vietnam invece il 1974 è un anno grigio, di transizione. Gli accordi di Parigi non hanno portato la pace, e la guerra tra Nord e Sud Vietnam continua in uno stillicidio di attacchi e contrattacchi che sono denunciati da entrambe le parti come violazione degli accordi di pace. Il Vietnam sembra uscito dalla scena mondiale e lo è sicuramente dalle prime pagine dei giornali.
Ad Hanoi ero arrivato, quasi fortunosamente, il 25 dicembre 1972 e ci ero arrivato proprio grazie al Natale.
Nel novembre 1972 ero ad Algeri e preparavo i bagagli per ritornare in Italia dopo tre anni passati come corrispondente dell'"Unità". Luca Pavolini, allora condirettore del giornale - il direttore era Aldo Tortorella - mi chiamò al telefono proponendomi di partire per il Vietnam e aggiunse: "Oramai la pace è firmata, goditi le vacanze e a gennaio, con calma, potrai partire." Ovviamente accettai subito, quasi senza riflettere. Certo i miei piani per il futuro cambiavano radicalmente, dopo tre anni sentivo il bisogno di tornare in Italia, ma sarei stato testimone dell'arrivo della pace in Vietnam, un fatto storico, e comunque il ritorno in patria sarebbe stato rinviato per un periodo relativamente breve: allora l'"Unità" mandava i suoi corrispondenti ad Hanoi per soli sei mesi, viste le difficili condizioni di vita che esistevano in quel Paese in guerra e poverissimo. Ma le cose andarono diversamente.
La mattina del 18 dicembre una telefonata mi raggiunse a Cagliari, dove passavo le vacanze nella casa dei miei genitori. "Gli americani stanno bombardando Hanoi, devi partire subito." E subito partii per Mosca dove avrei dovuto ritirare il visto vietnamita e prendere l'aereo, un turboelica Ilyushin Il-18 che a balzelloni, passando per Erevan, Karachi, New Delhi, Rangoon, Vientiane raggiungeva Hanoi.
L'aereo partiva da Mosca il mercoledì, tardi, verso mezzanotte. Accompagnato da uno degli interpreti dell'"Unità" che doveva aiutarmi nelle pratiche d'imbarco, aspettavo con trepidazione l'annuncio della partenza, eravamo arrivati con un certo anticipo ma a me sembrava che il tempo non passasse mai. Un paio di volte chiesi al mio accompagnatore di andare a informarsi, ma tornava invitandomi alla pazienza, tutto era assolutamente "normale". Quando finalmente l'annuncio arrivò rimasi sorpreso: l'elenco delle tappe previste non si concludeva con Hanoi. L'ultimo aeroporto citato era Vientiane. Pensai di aver sentito male, l'annuncio era in russo, ma quando venne immediatamente ripetuto in inglese di nuovo la parola "Hanoi" non fu pronunciata. Chiesi conferma a Jurij (se non ricordo male, si chiamava così l'interprete dell'"Unità"). Non ci aveva fatto caso, si era distratto, mi rispose, ma forse avevo capito male, non c'era ragione per cui l'aereo non dovesse arrivare ad Hanoi. In quel momento l'annuncio fu ripetuto e questa volta Jurij confermò: Hanoi non era compresa fra le destinazioni. Ci precipitammo al banco delle partenze, dove regnava una notevole confusione e la conferma arrivò: l'aeroporto di Hanoi era chiuso al traffico a causa dei bombardamenti americani. Ma proprio a causa dei bombardamenti americani io dovevo arrivare ad Hanoi, per fare il mio lavoro.
Sarebbe stato un fallimento inaccettabile, non era possibile rinunciare, dovevo arrivare ad Hanoi. Quando era previsto il prossimo volo? Mercoledì prossimo ci risposero, ma non c'era nessun'altra possibilità? Sì c'era, si poteva partire l'indomani con un aereo che, anche questo balzelloni, seguendo la linea della Transiberiana con scali a Omsk, Novosibirsk e Irkutsk atterrava a Pechino dopo aver sorvolato la Mongolia. Una volta a Pechino, un modo di raggiungere Hanoi si sarebbe trovato, magari attraversando la Cina in treno e comunque mi sarei avvicinato notevolmente alla meta.
Ma c'era un problema e non piccolo: bisognava avere un visto cinese e in quegli anni i rapporti tra Il Pc italiano e quello cinese erano pessimi, anzi inesistenti, rivolgersi direttamente all'ambasciata cinese era impossibile, ma si poteva ricorrere alla mediazione vietnamita. Debbo dire che i diplomatici vietnamiti non mi sembrarono entusiasti di dover andare a chiedere un favore di questo tipo ai cinesi, i rapporti non erano idilliaci sotto le dichiarazioni di grande e militante solidarietà, ma dopo una lunga mattinata d'attesa il visto fu rilasciato e la notte stessa partii per Pechino.
Ad aspettarmi all'aeroporto c'erano due funzionari dell'ambasciata vietnamita che si occuparono di tutte le pratiche e mi accompagnarono all'Hotel delle Nazionalità. Mi raccomandarono di non muovermi perché il volo per Hanoi poteva partire a ogni momento e con scarsissimo preavviso quindi dovevo essere sempre pronto. Più tardi mi fu spiegato che era piuttosto strano che un occidentale fosse ospitato nell'Hotel delle Nazionalità, riservato agli appartenenti alle minoranze etniche cinesi. Il fatto che in tutti i giorni passati a Pechino non avessi visto o incontrato nessuna autorità cinese mi convinse che il mio visto era del tutto particolare, in realtà formalmente non avevo messo piede in Cina, ma vi ero solo passato chiuso nel guscio protettivo dell'Ambasciata vietnamita, vivendo in una sorta di extraterritorialità.
Ebbe inizio una lunga ed estenuante attesa che durò fino alla vigilia di Natale quando fu annunciato per l'indomani il volo per Hanoi: gli americani avevano deciso che per il 25 dicembre i bombardamenti sarebbero stati sospesi.
Il volo seguiva all'incirca la direttrice della ferrovia che un paio di anni dopo avrei percorso per rientrare in Italia. Ma erano i passeggeri a essere particolarmente interessanti: personaggi mitici, almeno per me. Ne ricordo due: il giornalista australiano Wilfred Burchett, grande esperto di questioni asiatiche, e l'ambasciatore cubano Raúl Valdés Vivó, che era seduto nel sedile accanto al mio. Una vera fortuna: era un uomo affabile e aperto e mi parlò a lungo della situazione politica in modo molto spregiudicato per un ambasciatore. Teneva molto, però, a sottolineare che il suo vero mestiere era il giornalismo. Quando ci salutammo mi disse il rituale "mi venga a trovare", ma non lo incontrai più.
L'aeroporto di Hanoi apparve all'improvviso vicinissimo dopo una lunga discesa tra nuvole che non sembravano finire mai. L'aereo si fermò ai margini della pista, abbastanza lontano dalla costruzione bassa dell'aerostazione e non spense i motori. Ci fecero scendere in fretta e furia, anche per evitare il vento prodotto dalle eliche. Ci avviammo, ci veniva incontro un gruppo di persone, erano dei visitatori rimasti bloccati ad Hanoi, correvano a perdifiato, forse per timore di perdere l'aereo. Ci incrociammo senza salutarci, ma sentii delle voci italiane. Seppi poi che era una troupe della Rai guidata da Furio Colombo.
Un gentile funzionario del servizio stampa del ministero degli Esteri mi aiutò a sbrigare le pratiche all'ingresso e poi mi condusse all'Hotel Thong Nhat che sarebbe diventata la mia casa per i prossimi quattro anni.
La prima notte riuscii a dormire, le successive quattro no. Fino al 29 dicembre il Vietnam fu sottoposto, giorno e notte, a massicci bombardamenti. Nixon sperava di piegare i nordvietnamiti o di indebolirli per garantire meglio i suoi alleati del Sud Vietnam e ottenere qualche modifica agli accordi che erano stati siglati a Parigi alla...