introduzione
Perché questo libro?
Obiettivo ultimo, che è anche immediato, ovvio, cioè nascosto, diretto/indiretto: affermare la rottura. Affermarla: organizzarla rendendola sempre più reale e radicale. Quale rottura? Una rottura con il potere, e quindi con la nozione di potere, e quindi in tutti i luoghi dove il potere predomina. [.] Affermare radicalmente la rottura: ciò equivale a dire (nel primo senso) che siamo in uno stato di guerra con ciò che è, ovunque e sempre, non avendo relazione alcuna se non con una legge che non riconosciamo, con una società i cui valori, verità, ideali e privilegi ci sono estranei, avendo quindi unicamente a che fare con un nemico tanto più temibile quanto più compiacente, con cui beninteso in nessuna forma, neppure per ragioni tattiche, scenderemo mai a patti. Rompere con il passato non significa solo liberare o cercare di liberare dalla loro integrazione con la società vigente le forze che tendono alla rottura, ma significa anche fare in modo che - nella realtà e ogni volta che si realizza - il rifiuto, senza smettere di essere un rifiuto attivo, non sia solo un momento negativo. Politicamente e filosoficamente, questa è una delle caratteristiche più forti del movimento. In questo senso, il rifiuto radicale, così come viene attuato dal movimento e come anche noi dobbiamo attuarlo, va ben oltre la semplice negatività, se è la negazione stessa di ciò che non è ancora stato posto e affermato. Uno dei compiti teorici del nuovo pensiero politico è chiarire la singolarità di questo rifiuto. Il teorico non sta ovviamente nell'elaborazione di un programma o di una piattaforma, bensì proprio nel collocarsi al di fuori di ogni progetto programmatico, se non addirittura di ogni progetto tout court; nel mantenere un rifiuto che afferma; nel liberare o mantenere un'affermazione che non si accomoda e che anzi disturba e si disturba, avendo a che fare con lo scompiglio, il disordine o ancora il non-strutturabile.
Maurice Blanchot, Affirmer la rupture1
Nella misura in cui l'anarchismo promuove la diversità e celebra il molteplice, è comprensibile che si collochi anche sotto il segno della pluralità, e che dunque lo spazio dell'anarchismo sia, assai fortunatamente, costituito di una molteplicità di anarchismi.
Se nei miei scritti da diversi anni uso l'espressione «anarchismi», al plurale, invece di «anarchismo», è perché l'uso del plurale è un riconoscimento immediato della diversità, e anche perché, con un'intenzione performativa, vuole essere un modo per incoraggiare il mantenimento di questa diversità di fronte alle tentazioni unificanti di alcune correnti, secondo le quali deve prevalere un solo tipo di anarchismo, il loro.
Insomma, la pluralità dell'anarchismo non si limita a una semplice coerenza con i propri principi, ma di fatto non può, a mio avviso, che essere tale.
Nondimeno, l'anarchismo non fondazionale - tema di questo libro - si presenta qui al singolare nella misura in cui costituisce una variante nuova dell'anarchismo. Mi astengo anche dall'usare il plurale quando mi riferisco a caratteristiche comuni a tutti gli anarchismi; quando invece non è così, ad esempio quando parlo di post-anarchismo, il semplice fatto di nominare una variante dell'anarchismo implica che ce ne sono anche altre.
Se mi sforzo di delineare i contorni, ancora imprecisi, di questa variante non fondazionale dell'anarchismo, e se mi sono convinto a presentarla nelle pagine che seguono, è perché la ritengo una forma di anarchismo che, avendo in sé il germe di una riflessione costante sulla possibilità dei propri effetti di dominio, ha la capacità di affrancarsi da quell'inerzia che rischia di renderli invisibili.
Infatti, se si tratta di lottare contro i domini e se è vero che gli anarchismi rappresentano proprio ciò che del dominio contraddice la logica stessa, si tratta anche di non riprodurre in questa lotta ciò contro cui si combatte. Questa esigenza porta l'anarchismo non fondazionale a problematizzare costantemente i propri assiomi per esplorare fino a che punto sia possibile pensare l'anarchismo in modi diversi da quelli consolidati.
Così, senza pretendere di fare dell'anarchismo non fondazionale una sorta di anarchismo autentico cui spetterebbe il compito di rilevare il carattere non sufficientemente anarchico delle sue varianti alternative, lo vedo piuttosto come una modalità che ha incorporato in sé una sorta di antidoto contro i residui dei presupposti fondazionali che inevitabilmente si trovano nelle concezioni politiche forgiate in epoca moderna.
Per il momento precisiamo che per fondazionalismo si intende, a grandi linee, la metafisica che ha permeato in varie forme la civiltà occidentale, dalla Grecia classica alla modernità, postulando la necessità assoluta che i criteri, o i principi, che determinano la nostra visione del mondo poggino su basi ultime, solide, atemporali e indiscutibili.
Per cogliere il rapporto tra fondazionalismo e anarchismo, bisogna necessariamente interrogare ciò che contemplando le diverse espressioni dell'anarchismo non può essere percepito, ciò che rimane inaccessibile se non attraverso un'attività di pensiero che sondi il concetto stesso di anarchia. Il che significa, tra l'altro, esplorare la sfera astratta dell'anarchia ontologica.
Mi rendo conto che questo inizio è un po' brusco e forse anche criptico, ma spero che pagina dopo pagina diventino più chiari termini e formule come «non fondazionale», «anarchia ontologica» ecc., che fortunatamente non fanno parte del vocabolario quotidiano della maggior parte di noi, ma che non sono così astrusi come possono sembrare.
Per quanto si possa trovare in un pensatore come Max Stirner la prefigurazione di alcuni aspetti di un approccio non fondazionale, ci sono buone ragioni per cui l'anarchismo non fondazionale non è potuto emergere nel XIX secolo, quando si stava formando l'anarchismo politico, e neppure nella prima metà del XX secolo. Paradossalmente, queste ragioni sono peraltro le stesse per cui un simile approccio è potuto finalmente emergere negli ultimi decenni del XX secolo e, soprattutto, nei primi decenni del XXI.
Questa particolarità, cioè la possibilità di sorgere in certi contesti storico-sociali e non in altri, si deve a una peculiarità dell'anarchismo che riassumerei - parafrasando la formula di Hegel: «La filosofia è il suo tempo espresso in pensieri» - nel modo seguente: «L'anarchismo è il suo tempo espresso nelle lotte contro i domini».
Ciò significa che l'anarchismo è sì una lotta contro i domini, ma contro quelli specifici del suo tempo, il che implica, di conseguenza, che l'anarchismo è necessariamente mutevole e che i suoi cambiamenti sono in fase con quelli che attraversano i domini stessi.
È facile dedurre da quanto detto il motivo per cui insisto tanto sulla tesi secondo cui l'anarchismo cessa di essere tale nel momento in cui si arresta, si cristallizza e smette di trasformarsi: infatti, perdendo la propria connessione con un dominio che non ha interrotto la sua evoluzione, manca il bersaglio e perde così la sua ragion d'essere, diventando qualcosa di diverso dall'anarchismo.
Più precisamente, appare evidente come il cambiamento sia una caratteristica intrinsecamente costitutiva dell'anarchismo, e non un semplice elemento congiunturale legato alle corrispondenti mutazioni sociali. Questa particolarità si deve al peculiare rapporto che l'anarchismo stabilisce tra teoria e pratica, e che Proudhon esprime molto efficacemente quando osserva che «l'idea nasce dall'azione e deve tornare all'azione». Questo ciclo ricorsivo di teoria e pratica fa sì che quando le pratiche si modificano, si modifica anche l'idea, che a sua volta porta a una trasformazione delle pratiche, mettendo in moto un processo senza fine.
Ora, poiché le pratiche si inscrivono sempre in un determinato contesto storico-sociale, e poiché questo contesto è in continua evoluzione, queste devono necessariamente mutare per rimanere ancorate al loro contesto; il che, come ho detto, proprio per via del legame che l'anarchismo intesse tra teoria e pratica, non può che avere un impatto sulla teoria.
Ne consegue che per spiegare cosa intendo per anarchismo non fondazionale sono necessari due elementi. Il primo consiste nel ripercorrere, sia pure superficialmente e a grandi linee, la genealogia delle evoluzioni conosciute dall'anarchismo in funzione delle grandi trasformazioni sociali che hanno avuto luogo dalla sua nascita a oggi. Il secondo consiste nell'analizzare le caratteristiche del quadro sociale, economico, tecnologico e culturale in cui va emergendo la possibilità di questo nuovo tipo di anarchismo, ovvero le caratteristiche del mondo all'inizio del XXI secolo.
Per sviluppare le mie argomentazioni, il libro è suddiviso, dopo questa introduzione, in quattro capitoli, un epilogo, un addendum e una bibliografia.
Il primo capitolo si intitola «L'anarchismo negli anni della sua formazione». È chiaro che l'anarchismo politico, cioè quella variante che si definisce esplicitamente...