INTRODUZIONE
Indice «Com'ero fiero d'esser nato in Italia!»
Garibaldi, Memorie autobiografiche.
ulla fine dell'agosto 1849 il futuro Capitano dei Mille si aggirava profugo e senza guida per l'Appennino toscano. Era uscito da Roma la sera del 2 luglio, seguìto da 3000 dei suoi, cui aveva promesso per ricompensa fame, sete, marcie, battaglie e morte. Voleva ultimo ripiegare la gloriosa bandiera, e sperava che la presenza delle sue armi rinfocolasse nei popoli toscani i sensi di libertà testè compressi dall'invasione straniera. E seppe colla sua maravigliosa abilità di condottiero uscire dalle strette di quattro eserciti che lo inseguivano, confonderli tutti colle sue mosse ardite, colle sue contromosse inopinate, trovarsi una via di uscita di mezzo a quel cerchio di ferro. Ma non ebbe dai popoli l'appoggio sperato, e si ridusse sul territorio di San Marino, dove, ripugnante di patteggiare collo straniero, sciolta prima la sua colonna, eludeva anche una volta la caccia spietata, e fuggiva di mano ai suoi persecutori per comparire la sera stessa del 1º agosto a Cesenatico con 200 dei più fidi che non vollero a nessun costo lasciarlo, e con essi impadronitosi di tredici barche peschereccie, salpava per Venezia, ultimo propugnacolo della vita italiana.
Ma la fortuna non arrise propizia a questo sforzo supremo. Sopraggiunte da incrociatori austriaci le sue barche, guidate da marinai presi a forza o improvvisati, si sbandarono, e Garibaldi con pochi compagni fu costretto a riprendere terra sulle coste di Magnavacca. Un bando feroce dell'austriaco generale Gorzkowscki lo poneva fuori della legge come un predone, e comminava la fucilazione a chi gli dasse soccorso. Pochi per difendersi, troppi per potersi nascondere, non era dunque possibile che quei gloriosi avanzi di Roma repubblicana si tenessero uniti su quella spiaggia scoperta, e si sparpagliarono a caso per diverse vie.
Garibaldi restò solo colla sua Anita e col capitano Leggero. Ma in quale condizione era ridotta la misera donna! Incinta da sei mesi non aveva mai voluto lasciare il marito suo nella ritirata disastrosa, ed ora febbricitante, lacera, sprovvista di tutto, era perfino incapace di reggersi in piedi. La prese Garibaldi sulle sue braccia, e si diresse col compagno verso una capanna deserta, ove giunto, gli comparve, soccorso insperato, Giovacchino Bonnet di Comacchio. Ebbe per mezzo di lui il Generale ricovero più sicuro, e un letto per la povera inferma, prima presso un amico, poi nella fattoria Guiccioli detta Le Mandriole; ma erano ivi appena arrivati che l'infelice Anita spirava. Ed ora un altro supremo dolore; anche il conforto di dare alla salma della cara compagna sepoltura onorata era vietato allo Eroe. Gli Austriaci comparivano in vista della casa quando Anita cessava di vivere, onde non potè il Generale che deporre un bacio su quella gelida fronte, raccomandare colle lacrime agli occhi alla famiglia del fattore Ravaglia che si dasse a quel caro corpo una sepoltura onorata, e, incalzato dal pericolo, volgere le spalle alle Mandriole.
Raccolto da patriotti di Sant'Alberto e di Ravenna fu per la via di Forlì diretto a Modigliana, e affidato a Don Giovanni Verità, sacerdote onesto e patriotta, presso il quale restò nascosto per otto giorni, e che fornì i due profughi di una guida per condurli lungo il crinale dell'Appennino nei monti di San Marcello, da dove pel Modenese sarebbero di poi passati in Piemonte. Ma la guida servì loro di scorta fino al valico di Montepiano, e, forse errando la via, li fece divergere verso Toscana, prendendo il contrafforte appenninico delle Galvano, ove durante un temporale, e in mezzo ad una folta nebbia, fu perduta di vista dai due proscritti, che rimasero anche privi di alcuni oggetti - affidati al loro conduttore. Chiamata e ricercata inutilmente la guida, nè sapendo per dove incamminarsi, stretti dalla necessità, si risolsero a discendere il monte, e a cercare una via di salvezza attraverso ai luoghi abitati. Questo lo stato del grande Nizzardo sulla fine del 1849, questi i suoi dolori nei due mesi trascorsi. La patria ricaduta nella schiavitù, la sua Anita morta di stento fra le sue braccia, e abbandonata la salma di lei all'altrui carità, esso stesso seguìto da un solo compagno, incerto del dove muovere il piede, privo di appoggi, cercato a morte come una belva feroce, e nonostante ciò sempre sicuro di sè, col suo indomito coraggio, colla sua fede nell'avvenire, l'Eroe non ha piegato, e non piegherà sotto il peso dell'avversa fortuna. Tanto disprezza il pericolo, che neppure ha voluto fare sacrifizio dei suoi capelli inanellati, e della sua barba bionda, ornamento bello ma troppo singolare della sua testa caratteristica. È tranquillo e sereno, come se la condanna di morte non pesasse su lui[1].
I
Dal Molino di Cerbaia a Prato
Indice a mattina del 26 agosto 1849, giorno di domenica, due sconosciuti, poco dopo il sorgere del sole, guidati da persona del paese, scendevano a piedi il monte delle Calvane per la pendice che conduce alla valle del Bisenzio. Si erano presentati a Montecuccoli ad ora inoltrata della sera innanzi, ed avevano chiesto ed ottenuto ricovero per quelle poche ore in casa Ciampi, da dove erano ripartiti senza dare a conoscere l'essere loro, e dopo avere fatta ricerca di chi li dirigesse verso Pistoia. Un tale Ferdinando Marcelli detto Fiorino si era offerto di condurli al Molino di Cerbaia, da dove il mugnaio, che aveva nome di ospitaliero e servizievole, avrebbe pensato al modo di fare loro continuare la via. Una qualche straordinaria circostanza aveva certamente balzati quei due per luoghi così alpestri ed inusitati; non avevano toscana la pronunzia; era il loro vestiario decente, ma non portavano seco qualsiasi oggetto di viaggio; erano pervenuti a Montecuccoli sboccando dalle boscaglie che ricuoprono i monti dell'Appennino. Nè questo solo avrebbe attirata sui due viandanti l'attenzione altrui, che anche dalle loro persone traspariva un qualche cosa di veramente singolare; l'uno di essi, di mezzana statura, dalle membra bene proporzionate, dalla barba bionda, dai capelli lunghi e ricciuti che gli scendevano per le spalle, dalla fisonomia bella, fiera, ma velata da un intimo senso di mestizia, procedeva pel primo, e faceva trasparire da tutti i suoi atti una tale sicurezza di sè, da doverlo a forza riverire ed ammirare. L'altro, bruno di carnagione e di capelli, adusto della persona, zoppicante da un piede, seguiva il compagno coll'obbedienza del soldato verso il suo capo, coll'amore previdente del figlio verso il suo genitore. Camminavano spediti, per quanto il bruno non potesse fare a meno di mostrarsi qualche volta sofferente del suo piede, e, mentre passavano al di sotto del poggio a cui sovrastano i grandiosi avanzi dell'antica rocca di Cerbaia, il viaggiatore biondo non potè fare a meno di soffermarsi a rimirare le grandezze dei tempi che furono. I suoi belli occhi celesti si saranno velati ancora più di mestizia, e forse l'istoria intera dell'umanità passò come un lampo per la mente di lui - la forza che si impone al diritto - si asside sovrana - e cacciata a sua volta da forza maggiore, lascia a vestigia di sè le proprie rovine.
Procederono oltre fino al Molino di Cerbaia, cui girarono attorno per andare a trovare l'ingresso situato dalla parte opposta a quella per la quale erano discesi. Il mugnaio Luigi Biagioli, conosciuto col soprannome di Pispola, che veramente era servizievole, ricevè i due viandanti con ogni maniera di cortesia, come era nel suo costume di fare. Chiesero i nuovi venuti ristoro di riposo e di cibo, o il modo di procedere oltre per la via più breve fino a Pistoia, e su favorevole risposta del mugnaio licenziarono la guida, remunerandola del servizio prestato. Intanto Pispola fece porre a mensa i due viaggiatori, e si disponeva ad insellare due cavalli, coi quali avrebbe fatto guidare gli ospiti a Pistoia da alcuno dei suoi figli.
Ma la fortuna d'Italia preparava ad due sconosciuti una via più sicura. Enrico Sequi, giovane ingegnere preposto alla direzione di alcuni lavori stradali che si compievano in vicinanza di Vaiano, vicino villaggio posto sulla destra del Bisenzio, si incamminava verso il monte cacciando. Pervenne così al Molino di Cerbaia, a quattro chilometri dal paese, ed erano circa le ore 8 di mattina. Pispola col fare ciarliero del campagnuolo semplice e rozzo gli raccontò che un'ora avanti si erano presentati al Molino due forestieri, i quali avevano chiesto di rinfrancarsi, e di proseguire la strada per Pistoia; intanto erano a tavola, e venivano preparati i cavalli secondo il desiderio loro; concluse invitando il Sequi a fare compagnia agli ospiti. Questi, sorpreso dalla novità del caso, corse col pensiero ai tanti patriotti sbandati delle Romagne, che traversavano allora quei monti in cerca di salvezza, e col desiderio di giovare ai supposti fuggiaschi accettò l'invito, ed entrò nella stanza in cui stavano gli sconosciuti. Entrando salutò il Sequi i due che sedevano a mensa improvvisata, e che, restituito il saluto al cacciatore, offersero a lui, ciascuno a loro volta, da bevere. Intanto il Sequi, parlando ora di una cosa ora dell'altra, e specialmente dirigendosi al mugnaio, e proponendogli una cacciata da farsi insieme nella futura settimana, potè bellamente fare intendere agli stranieri l'essere suo. Il mugnaio aveva aderito alla proposta caccia, e si era poi ritirato per accudire alle sue faccende. Restato solo coi due, venne fatto al giovane ingegnere di portarsi la mano ad una delle tasche per estrarre il porta-sigari, e insieme a questo estrasse involontariamente un giornale, che tosto veduto gli fu da uno dei due cortesemente richiesto. Ottenutolo lo scorse questi con una rapida...