L'azzurro si addice alle ombre
di Riccardo Falcinelli
Qualche giorno fa stavo guardando con mio figlio un cartone animato con protagonisti alcuni personaggi dotati di poteri speciali. Era uno di quei film disegnati in digitale che sono in grado di ricreare ogni effetto di luce e di materiale alla maniera inaugurata ormai trent'anni fa dalla Pixar. In una scena particolarmente struggente si vedevano i protagonisti mentre camminavano lungo un interminabile marciapiede su cui il sole, tramontando, proiettava le loro ombre: tutto era imbevuto di una luce calda, piena di arancioni, di rosa e di magenta. Tutto era caloroso, tranne le ombre. Fu allora che mio figlio disse: «Si capisce che sono supereroi, perché hanno le ombre blu». Effettivamente le ombre proiettate a terra erano di un bell'azzurro vivo, ma a dispetto dell'idea poetica che se ne era fatto mio figlio la ragione di quella tinta non dipendeva dai superpoteri dei personaggi, ma da una questione percettiva. Ovviamente stetti zitto. Non commentai. Anche perché se avessi dovuto rispondere avrei dovuto dire: «Guarda che le ombre sono blu non perché sono personaggi magici, ma perché tre secoli fa un signore chiamato Wolfgang von Goethe parlò per primo delle ombre azzurre e i suoi libri ebbero tanto successo che influenzarono generazioni di artisti e tra questi alcuni chiamati impressionisti che hanno determinato gran parte della didattica artistica del xx secolo, su cui a loro volta si sono formati i disegnatori di cartoni animati e il direttore della fotografia del film che stiamo vedendo». Ecco, non è una cosa che si può dire a un bambino di sei anni. È però qualcosa che si può raccontare in una prefazione. Ma sarà bene andare per ordine.
Oltre alla produzione poetica, drammaturgica e narrativa, Goethe scrisse due opere dedicate al colore, alle quali dedicò così tanto impegno da considerarle i lavori più significativi della sua carriera, suscitando sorpresa tra molti lettori. Il primo è La teoria dei colori (1810) - cioè il libro che tenete in mano -, testo suggestivo e anzitutto concettuale; il secondo, La storia dei colori (1810), è invece un insieme di riflessioni che va dall'antichità al Settecento, rappresentando un completamento ideale del discorso avviato nella parte teorica.
Come anticipavo qualche riga fa, La teoria dei colori diventa presto il fondamento di tutta la futura letteratura artistica, di certo per via della scrittura - letteraria e non strettamente tecnica - e poi perché, rispetto a quanto era stato scritto fino a quel momento, con Goethe la scienza appare concreta, comprensibile e anche appassionante, soprattutto agli occhi dei non addetti ai lavori. A differenza di Newton, infatti, che aveva posto l'attenzione sull'essenza della luce, cioè sul suo aspetto «fisico», Goethe è interessato all'aspetto fenomenico del colore, ossia il modo con cui lo vediamo nella vita di ogni giorno. Non per niente, parte del discorso goethiano è incentrato su una serrata polemica con la teoria newtoniana che lo scrittore tedesco reputa troppo astratta.
Gli esperimenti di Newton del secolo precedente avevano fatto epoca ed erano divenuti noti anche tra i non specialisti. In una stanza buia lo scienziato inglese aveva intercettato con un prisma di vetro un sottile raggio di luce che filtrava dalla finestra, proiettandolo sul muro di fronte, dove questo, anziché restare bianco, si era scomposto in una sequenza variopinta simile a un arcobaleno. Partendo da qui, Newton aveva dimostrato che il colore è una caratteristica intrinseca della luce e non una proprietà delle cose. Si tratta di un'idea decisamente controintuitiva per l'epoca, e che oggi è riconosciuta come un dato di fatto. Secondo la scienza contemporanea, infatti, la luce è un tipo di radiazione elettromagnetica costituita da onde che stimolano sensazioni visive nel nostro sistema nervoso, inclusi i colori. La struttura a piramide del prisma fa sì che queste onde, passando attraverso di esso, si pieghino in uscita secondo angoli progressivi, rivelando diverse tonalità: ciò che appare sul muro è quindi un segmento luminoso in cui i colori si dispongono in sequenza ordinata, proprio come in un arcobaleno. Per chiarire: nel caso dell'arcobaleno, le minuscole gocce d'acqua agiscono proprio come prismi in miniatura che riflettono le onde della luce.
La scoperta newtoniana aveva comportato un radicale cambio di paradigma non solo fra gli scienziati, ma pure nei discorsi artistici. Ovvero, se in passato tra i diversi pigmenti c'era una differenza economica enorme - per esempio il blu oltremare costava cinquanta volte il giallorino -, grazie a Newton, blu e giallo erano divenuti oggetti culturali paritari. Ma non solo. Per la prima volta nell'elenco dei colori mancavano il bianco e nero, un fatto in aperta contraddizione con la conoscenza pittorica plurisecolare in cui la «biacca» e il «nerofumo» erano colori reali che appartenevano alla tavolozza tanto quanto le altre tinte. Ed è soprattutto su questi aspetti che si innescano le perplessità goethiane. Il colore di cui parla Newton è disincarnato e le riflessioni del fisico gli paiono svincolate dall'esperienza reale. Goethe arriva anche a respingere come un'assurdità l'idea che la somma di tutti i colori produca il bianco. Insomma, Newton dirà pure il vero, ma secondo Goethe questo «vero» è inutile alla vita. Ma qual è, dunque, il tipo di esperienza cromatica che interessava a Goethe?
Ci sono due passaggi della Teoria dei colori che vale la pena ripercorrere e che possono aiutarci a comprendere meglio la questione. Nel primo, Goethe racconta che una sera, in un'osteria, si trova di fronte una ragazza dal volto bianchissimo e dai capelli neri, vestita con un corsetto rosso scarlatto. Lei gli si para davanti, ferma. Lui la fissa e, quando questa d'improvviso si muove, sul muro bianco gli appare un'immagine come in negativo: una figura nitida dal volto scuro col corpo di un bel verde mare. Oggi sappiamo che questo tipo di esperienza - nota come «immagine postuma» - dipende dai neuroni coinvolti nella visione che - dopo essere stati sollecitati per qualche secondo da certi colori e da una certa quantità di luce -, di fronte a una superficie neutra (in questo caso un muro bianco), costruiscono un'immagine residuale che, per compensazione, ha le caratteristiche opposte a quella di partenza. Come si nota la virtù dell'approccio goethiano è la concretezza: non impiega la teoria in astratto per tirane fuori degli esempi, ma parte da aneddoti e osservazioni per risalire alla riflessione complessiva.
Difatti, dopo poche pagine, Goethe propone un altro esperimento in linea col racconto appena fatto: suggerisce di poggiare su un foglio di carta bianca, al tramonto, una candela accesa. Tra questa e la luce del sole dice di mettere una matita, di modo che l'ombra generata dalla candela venga rischiarata (ma non annullata) dalla debole luce del sole calante. Noterete, dice Goethe, che l'ombra si mostra di un bell'azzurro vivo. Ora, l'effetto è possibile perché la candela, illuminando la carta di un tono caldo, spinge l'occhio a costruire un'ombra azzurrognola per compensazione, anche grazie all'aiuto della luce più fredda che proviene dall'esterno. In altre parole: nel caso della ragazza in osteria la mente crea un colore dopo aver guardato; nell'esperimento della matita si forma invece un colore psicologico accanto a quello percepito. La prima è una reazione che avviene nel tempo, la seconda nello spazio. In entrambi i casi, però, la tinta che vediamo nasce per opposizione alla tinta di partenza: ossia il rosso del vestito genera il verde mare, l'arancio della carta genera l'azzurro. Con finezza, Goethe ci fa notare che si tratta di tinte suscitate nell'osservatore e non di qualcosa che esiste nella realtà, suggerendo che la mente può produrre il colore anche in assenza di stimoli esterni. Ecco, per quegli anni è una costatazione nuova e stupefacente. Sino ad allora non si avevano dubbi che i colori fossero qualcosa che stava là fuori, nel mondo, caratteristiche proprie delle cose. Ed ecco perché Goethe è moderno, anzi modernissimo.
Queste scoperte saranno un'eredità fruttuosa per gli artisti che verranno, ma anche idee vitali per il futuro della psicologia della percezione: è la prova che i sensi non solo misurano il mondo, ma forniscono al cervello gli strumenti con cui costruire ciò che vediamo. Se chiudiamo gli occhi, infatti, le cose intorno a noi di certo continuano a esserci, ma il loro colore no. Perché il colore non è qualcosa che esiste a prescindere da un occhio che lo esperisca. In altre parole: fuori di noi c'è energia elettromagnetica e la fisica può studiarla, ci sono lunghezze d'onda precise e la fisica può misurarle, ma non il colore, che esiste solo quando un essere vivente è in grado di costruirlo nella propria mente per usare il mondo. Per questo la posizione di Goethe si rivela oggi più che mai interessante per i linguaggi visivi, forse più di quelle di Newton, perché nella rivendicazione del colore come fenomeno concreto e, allo stesso tempo, soggettivo Goethe ci mette di fronte a un fatto sorprendente: un colore che nessuno vede è un colore che non esiste.
Torniamo però a Newton, perché c'è un altro aspetto delle teorie dello scienziato inglese da cui, al contrario, Goethe viene profondamente...