/
La frase infelice
Un viaggio verso Sud
La pasta al forno con i peperoni era croccante quasi quanto la parola croccante, era untuosa come untuosa. Tu che leggi, pronuncia queste due parole a voce alta prima di proseguire, così sappiamo di cosa stiamo parlando. Fatto? Allora andiamo.
Era sera. Antonio serviva i maccheroni, noi altri tre sorseggiavamo del Rapitalà, gli ospiti stavano parcheggiando, e in tavola c'erano dei piatti di coccio grezzo dipinti a grandi fiori arancioni: perfettamente brutti in quanto immagini, ma in quanto realtà perfettamente belli.
Con Chiara e Antonio avevamo preso in affitto, io e Carlo, una casetta al mare in Sicilia. Chiara era l'amica che ci aveva fatti conoscere tre anni prima; ora, innamorati e fieri della nostra unione, eravamo una coppia consolidata (che espressione terribile, da lezione di chimica o fisica, qualcosa da desiderare e da temere e di cui soprattutto illudersi!). Proprio per confermarci tali, ma anche per smentirci tali, avevamo voglia di esplorare luoghi nuovi; però portandoci dietro Chiara come una prova d'acquisto, e scegliendo - tra tutte le parti d'Italia a noi ancora ignote - giusto la regione in cui lei era cresciuta. Non ci ero stato quasi mai, in Sicilia, ma soprattutto non l'avevo pensata. Quando sentivo la parola Sicilia dovevo subito pronunciare sottovoce, o almeno pensare a alta voce, le parole: triquetra insula. Era la definizione offerta nel mio primo libro di esercizi latini, prima media, capitolo sulla prima declinazione. La Sicilia, l'isola triangolare. La pronunciavo con due accenti sdruccioli (tríquetra ínsula), sbagliando - si dice triquétra; ma lo sbaglio rendeva meglio quel nonsoché di arduo, inerpicato, distanziante, sdrucciolevole, che sentivo nell'idea di Sicilia.
I nostri amici ci avrebbero raggiunti dopo due settimane. Noi due eravamo arrivati da soli, appena scoccato luglio, quando il traghetto da Napoli ci aveva deposti su un molo di Palermo. Mi aspettavo il trattamento mediterraneo completo, vicoli e riflessi marini e carretti di pescato e balconi con donne che urlano nomi di ragazzini; invece avevamo attraversato una città di palazzine moderne scrostate e mercati semivuoti, ai piedi di una montagna bruna. Per il mio momento di colore locale avevo dovuto aspettare la sera, in un ristorante allestito nel cortile di un palazzo nobiliare. I camerieri volteggiavano tra i grandi tavoli affollati e le stelle filanti delle sigarette, portando mazzi di calici e plateau di frutti di mare; la notte brillava di un lucore dorato; sembrava un film in costume. Ero appagato ma non convinto. Di mattina eravamo ripartiti. Nella Punto azzurra comprata pochi mesi prima non avevo voluto l'aria condizionata, mi sembrava un lusso immeritato. Ora ne pagavamo lo scotto (è il caso di dirlo), tenevamo i finestrini aperti ma Carlo non poteva appoggiare il gomito fuori, sulla portiera rovente. Stringeva con due mani l'atlante stradale e non appena accendeva una sigaretta il vento se lo ripigliava, strappando via le pagine.
Del resto l'atlante non ci serviva. La strada era una sola, una statale larga e polverosa che sarebbe stata un'autostrada se solo si fosse applicata. Macchine poche. Dopo Alcamo c'era un deserto. La parola deserto mi affiorava di scatto alla mente, come un gendarme che ha lungamente atteso nella sua garitta la particolare combinazione di fattori - afa, luce abbacinante, ore bruciate, stoppie, estensione di spazio vuoto, pungente intensità di pregiudizio - che permette di puntare la baionetta e interpretare come deserto una ridente area agricola punteggiata di casolari, in una provincia che ha la stessa densità di popolazione di quelle di Mantova o Pisa. Poi c'era una cittadina di trentamila abitanti: attraversata in tre minuti. Poi un altro deserto (o era lo stesso?), poi un paese di diecimila, poi ancora deserto. Ogni volta sembrava di essere arrivati, ogni volta si incrociava strade comunali che ripetevano le stesse indicazioni in direzioni diverse; eravamo prigionieri inconsapevoli di quel medioevo tra la diffusione delle rotatorie e la comparsa del navigatore satellitare. Cercavamo indizi nel paesaggio, ma da ogni lato ondeggiavano le stesse colline appiattite dal calore, mai un passante, un uccello, nulla. Sognavo una sovrimpressione che mi indicasse pazientemente, lungo lo spartiacque ottuso tra i morbidi bacini di due fiumare, i sentieri di migrazione, i confini smussati delle controversie baronali, gli itinerari delle armate arabe o garibaldine che avevano passeggiato lì come pulci sulla dorsale scabra di una balena. Volevo un acetato da mettere e togliere, mettere e togliere... Invece mi si presentava solo uno spazio senza nomi.
Non è vero che l'ignoranza è confortevole: quando la tocchi, fa paura. Soprattutto l'ignoranza di chi ha letto Verga e Sciascia ma li ha letti come Tolkien e Kipling. Di chi ha amato, sinceramente amato braccianti, calafati e piccoli solfatari, così come ha amato, sinceramente amato gli elfi, i nani, Mowgli. Non conoscevo il Sud, e lo sapevo. Ero nato a Roma da genitori del Nord. Ero cresciuto in questa città popolata e mitizzata dagli esuli meridionali, ma per me (come per tanti miei amici torinesi o milanesi) il Sud restava uno spazio d'inesperienza, un vuoto farcito di folklore. Nessuno di loro, di noi, scendeva al Sud. Soprattutto nessuno si fermava al Sud, mai, mai, mai, e i problemi del Sud venivano deprecati come problemi che dal Sud non si sarebbero mai mossi, mai, mai, mai. Turisti a parte, giornalisti a parte, antropologi a parte, dalla Val Padana scendevano fin lì (ma non si dovrebbe dire salivano, visto che da un bacino piatto si passava a una vasta penisola aggrappata a una catena montuosa?) solo pochi quadri aziendali o militari di leva ansiosi di tornarsene al più presto a casa e dimenticare per sempre la Fiat di Pomigliano o il Car di Bari. Così almeno mi sembrava. Io, del resto, non ero da meno. Ed è appropriato che questa storia del mio rapporto con le parole, che tanto spazio dovrà dedicare anche alla possibilità di mentire agli altri e a sé stessi, inizi proprio parlando della mia complicità con un preconcetto collettivo.
Finalmente eravamo pervenuti a un paesino di un centinaio di anime: effettivamente invisibili, da brave anime. Le strade squadrate, le case squadrate. Tutto bruciacchiato dal vento e dal sale, tranne le targhe con i nomi delle vie, brutte ma nuove di zecca. Qualche cane messo lì come in un rendering architettonico. La casa era al centro del paese... oppure sui margini? Non lo ricordo e non doveva cambiare molto. In attesa dei nostri amici, ci eravamo installati. Di giorno andavamo al mare in una spiaggia vuota, ma piena di buste di plastica e cocce d'anguria lasciate dai gitanti della domenica: perché, mi chiedevo, questa mancanza di senso civico? Non era una vera domanda, che avrebbe potuto trovare una risposta, magari articolata e impegnativa; forse era una postura. L'acqua invece era limpida e bassissima e ferma, una resina. Mi stupivo che fosse salata. Di pomeriggio il giro del paese era presto fatto: c'era un faro, ovviamente automatico (chissà da quanto aveva traslocato l'ultimo guardiano), e sul lungomare un bacino che era stato una tonnara. La pietra sembrava ancora più calcinata se si provava a immaginare (un film) le grida, le braccia di uomini tarchiati con la panza dura come un tamburo, l'acqua fumante di sangue. C'era anche quel che restava di una torre di guardia contro i pirati barbareschi. Stavo per scrivere svettava, ma un cilindro tozzo e diruto non svetta. C'era e basta, senza più guardie e senza più pirati. Poco più a sud le acque gorgoglianti e acidule del canale di Sicilia stavano già digerendo lentamente centinaia di corpi di viaggiatori provenienti dal Nordafrica, ma questo l'avrei scoperto solo qualche anno dopo, come arrivando al finale di un libro che non mi ero accorto di leggere.
La nostra casa era vuota di libri e piena di linguaggio. Ci attendeva la zuppiera con la parola PASTASCIUTTA disegnata come uno spaghetto giallo canarino che schizza sugo rosso, ci attendeva un bazar di armadi d'abete bianco e vecchi canterani anneriti come pagine ancora da scrivere o rese illeggibili dagli sgorbi e dalle cancellature, ci attendeva la tavola con il mollettone di polietilene trasparente strizzato nei fermatovaglia di latta a forma della lettera ebraica mem. Tutto era un libro, e se avessi saputo leggerlo avrei capito il Sud. Questa dichiarazione sembra retorica, lo so bene: ma io avevo un antico conto da saldare con il Sud, come spiegherò poi, e dopo anni di Regalpetre e Donnafugate la lettura che ancora mi mancava del tutto era quella fatta di un buon guardare, sentire e ascoltare. In ogni caso non ci riuscivo, o non mi sforzavo abbastanza. Il Sud (che non chiamavo Sud, ma Meridione, come se per reperirlo occorresse l'astronomia) sembrava nascondersi tra le posate spaiate. Si intrufolava nella fessura della presa di corrente penzolante dal muro e scappava via tra i mannelli di cavi elettrici sospesi lungo la strada. Lasciava un'esile traccia di sé solo nel cortile, con la cucina e la doccia esposte agli elementi. Non pioveva mai e i pomeriggi di vento riempivano il cortile di sabbia, che non spazzavamo via per mantenere l'atmosfera. Stavo con Carlo da tre anni, l'amore viveva la sua sfolgorante ossidazione, la passione in eccesso si andava declinando in rispetto: la modalità silenziosa che permette a molte coppie rodate (ecco un'altra espressione...