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La vocazione
Miasmi d'Oriente
Molti anni prima della Guerra civile spagnola, che avrebbe dato alla sua prosa un'impronta politica netta senza la quale i capolavori della maturità non avrebbero mai visto la luce, un momento di svolta altrettanto importante per la vita e la carriera di Orwell fu il periodo trascorso in Birmania. Quell'angolo remoto dei domini britannici, dove visse dal novembre del 1922 all'estate del 1927, segnò per lui «il passaggio da giovane studente snob di Eton a scrittore dotato di coscienza sociale, pronto a immergersi fra i diseredati della società tentando di raccontarne le storie»1.
Si è versato molto inchiostro a commento del suo coinvolgimento nella Polizia imperiale, una scelta che, alla luce degli eventi successivi, appare quantomeno stridente; in effetti è curioso che un uomo destinato a vestire i panni dell'instancabile avvocato degli oppressi si sia prestato spontaneamente a diventare un ingranaggio della macchina imperialista. È stato detto che Orwell, una volta terminati gli studi superiori, fosse convinto di sposare l'amica Jacintha Buddicom e di andare a Oxford, ma che l'inaspettato rifiuto di lei lo avesse infine indotto a mollare tutto per stabilirsi in Oriente. Per quanto suggestiva, questa interpretazione trascura però alcuni particolari non secondari, a partire dal fatto che il futuro scrittore non accennò mai alla volontà di frequentare l'università, una strada, del resto, che i mediocri risultati scolastici gli avrebbero probabilmente precluso.
Quel che è certo è che Orwell finì per seguire le orme paterne, anche se, cresciuto tra i miti e le leggende dei Blair, aveva una vaghissima idea della reale natura del lavoro in una colonia2. Superati gli esami optò per la Birmania, una provincia che non garantiva grandi possibilità di carriera, ma che almeno conservava un legame con la sua famiglia.
Il Paese orientale, ottima riserva di petrolio e legname, era diventato ufficialmente parte dell'Impero britannico nel 1886, dopo che una forza di spedizione aveva invaso Mandalay, l'antica capitale, assicurandosi la resa incondizionata di re Thibaw. I nuovi dominatori avevano fatto piazza pulita di tutte le istituzioni precedenti, non preoccupandosi nemmeno di dare ai birmani l'illusione di conservare una qualche forma di autonomia. Si limitarono a depredare il territorio di tutte le risorse - accusa rilanciata da Orwell in uno dei suoi primi articoli3 - e la presenza di 40.000 soldati, tra inglesi e indiani, la dice lunga sul clima di tensione che si respirava nel periodo compreso tra le due Guerre mondiali, quando le timide concessioni non erano bastate ad arginare i fermenti nazionalisti incarnati dai vari movimenti di protesta.
Nel 1947 Orwell rievocò sulle colonne del Tribune due episodi avvenuti durante il viaggio in mare che lo avevano iniziato alle logiche di potere vigenti in Oriente: la vista di un quartiermastro che aveva sottratto un budino ai passeggeri di prima classe gli «insegnò più di quello che avrebbero potuto fare mezza dozzina di opuscoli socialisti»4, mentre il sergente di polizia bianco del porto di Colombo, osservato nel momento in cui prendeva a calci un povero servitore indigeno tra l'approvazione della folla, era la dimostrazione di una brutalità diffusa.
A Mandalay, differentemente dagli altri espatriati che passavano la maggior parte del loro tempo al forte, sede della scuola di polizia, Orwell preferiva le strade, a stretto contatto con l'atmosfera esotica del luogo5.
Nel 1924 venne assegnato per un mese a un reggimento dell'esercito di stanza a Maymyo (oggi Pyin Oo Lwin), poi, negli anni seguenti, ricevette incarichi a Myaungmya, Twante, Syriam (oggi Thanlyin), Insein, Moulmein e Katha. Il suo compito consisteva principalmente nel mantenere la sicurezza di vaste aree rurali che accoglievano centinaia di migliaia di abitanti. Ebbe modo così di stringere nuove amicizie e di entrare in maggior sintonia con gli usi e costumi della popolazione: uno dei visitatori della sua abitazione di Insein rimase scioccato nel vedere capre, anatre e oche gironzolare liberamente per il giardino; altrettanto curiosa era la sua abitudine di assistere alla messa domenicale frequentata dai membri della tribù Karen, molti dei quali erano stati convertiti al cristianesimo da missionari americani6.
A Moulmein, dove era cresciuta la madre, era stata dedicata una via alla famiglia Limouzin, la cui rappresentante più nota, la nonna Thérèse, morta da circa un anno, era «conosciuta in città per le cene e le partite di tennis che riscuotevano molto successo»7. In tutta la sua vita la donna si era limitata a imparare una manciata di parole in birmano, quelle di uso più comune, e Orwell, che conosceva bene la lingua, fu talmente colpito dall'apprendere la cosa che in seguito la portò a esempio per stigmatizzare la generale noncuranza degli europei nei confronti dei colonizzati8.
Per la verità, del periodo birmano del futuro scrittore si sa poco, ma gli indizi sparsi lasciano intendere che all'epoca fosse un tipo schivo, infastidito dal comportamento arrogante dei compatrioti9 in una colonia dove la superiorità dell'uomo bianco era data per scontato. Peccato però che gli inglesi per governare avessero bisogno di parecchi funzionari indiani, nonché della collaborazione degli indigeni. Comune, poi, era abitudine avere amanti birmane, il che favoriva la nascita di meticci ugualmente disprezzati dagli europei ed esclusi dai loro circoli.
L'atteggiamento di Orwell verso i birmani fu invece ambivalente: imparò ad apprezzarne la cultura e provava compassione per ciò che subivano, ma sapevano essere pure dei provocatori di prim'ordine, facendo perdere le staffe persino ai più bendisposti10.
Htin Aung, ex vicepresidente onorario dell'università di Rangoon, tenne una conferenza alla Royal Central Asian Society di Londra nel 1969 in cui descrisse un episodio che avvenne quando lui era liceale. Mentre aspettava il treno su una banchina della stazione, un altro studente, che stava giocando con i compagni, era finito accidentalmente tra i piedi di un inglese; questi, spazientito, aveva alzato la canna di passeggio per percuotere il ragazzo sulla testa, ma all'ultimo momento aveva aggiustato il tiro e lo aveva colpito sulla schiena. Ne era seguito un piccolo diverbio e Htin Aung era venuto in seguito a sapere dal capostazione che quell'uomo era Eric Blair11.
Di passaggio in Birmania con il club di dibattito della Oxford Union, anche Christopher Hollis, ex allievo di Eton, ebbe l'impressione che l'amico aderisse «alla perfezione al [...] ruolo di poliziotto imperiale»12, e lo stesso Orwell, molti anni dopo, espresse un pizzico di nostalgia per quei giorni andati: «Insieme al romanziere Anthony Powell avrebbe rimpianto la vecchia divisa [...]. "Niente ti regala la stessa emozione di quella fibbia dei calzoni sotto lo stivale"»13.
Questo dimostra l'attitudine eccessivamente semplificatoria di chi ha interpretato le sue dimissioni dalla polizia alla stregua di un gesto di protesta anti-imperiale. È vero che lo scrittore dichiarò di aver voluto mutare carriera «in parte perché il clima mi aveva rovinato la salute, in parte perché avevo già delle vaghe idee di scrivere libri, ma principalmente perché non potevo più andare avanti a servire un imperialismo che avevo cominciato a considerare più che altro un racket»14; tuttavia, come si è detto, da memorialista Orwell è poco attendibile. Verosimilmente quando se ne ritornò a casa in congedo le sue idee erano ancora molto nebulose. Comunque in Birmania non ci rimise più piede.
In bilico
Due degli articoli migliori di Orwell, in cui elementi autobiografici e simbolici si mischiano per impressionare il lettore con la crudezza della verosimiglianza, svelano i sentimenti contraddittori che si agitavano allora nel suo animo. In questo senso che gli episodi siano o no avvenuti così come riportati non toglie nulla al loro valore.
In "Un'impiccagione" ("A Hanging"), pubblicato nel 1931 sull'Adelphi, l'autore racconta di quando si ritrovò ad accompagnare al patibolo un prigioniero condannato alla pena capitale. A un certo punto, durante il tragitto, l'uomo si scansa per evitare una pozzanghera e Orwell è colto da un'improvvisa folgorazione:
Capì [...] l'enorme ingiustizia di stroncare una vita in piena attività. [...] Lui e noi eravamo un gruppo di uomini che si camminava insieme, si vedeva, udiva, sentiva, capiva le stesse cose e, tra due minuti, con un improvviso strattone, uno di noi sarebbe morto - un cervello di meno, un mondo di meno15.
Da quel momento la vicenda è un crescendo di tensione determinato dalla collisione tra il dovere del poliziotto e la obiettiva brutalità del gesto che si sta per compiere, un disagio collettivo che si stempera in sollievo solo con la dipartita del prigioniero.
Ne "L'elefante fucilato" ("Shooting an Elephant"), apparso sul New Writing cinque anni più tardi, Orwell è chiamato invece a fermare...