SCRIPTA MANENT
Nel tennis, certe partite possono essere frustranti e tu perderle per sfortuna, anche se avresti dovuto vincerle. Ma stai certo: più ti alleni, più sarai fortunato.
Nick Bollettieri
Prima che qualcuno possa pensare di avere tra le mani un quaderno di lamentazioni, vorrei convincere il lettore della sincera motivazione che muove questi pensieri. Non si tratta di rievocare con nostalgia i bei tempi andati, gettando giudizi sprezzanti- talvolta, peraltro, degni di cittadinanza - sullo stato dell'informazione e del racconto sportivo di oggi. Si dà però il caso che chi scrive abbia avuto in sorte di entrare nel mercato del lavoro agli albori della più formidabile rivoluzione del giornalismo, della scrittura e della comunicazione video: il passaggio dall'analogico al digitale, tra la fine degli anni Novanta e l'inizio del Duemila.
Durante i primi anni nella redazione del giornale, nello stesso spazio di lavoro convivevano la connessione in Rete e le diapositive scattate dall'inviato di punta della rivista, noto a tutti con il nome di «Nonno». L'ufficio grafico era costretto a usare quel materiale antidiluviano perché così voleva Ettore Ferreri che, per l'appunto, era il «Nonno». Piacentino, occhialuto, irruente e con scarsa capacità di contenere la rabbia, non so quale tipo di segreto inconfessabile conservasse per sé - o forse banalmente sapeva di poter trascinare l'editore in tribunale per anni di lavoro con mansione non riconosciuta - ma si era garantito l'esclusiva su tutte le trasferte più ponderose: Slam e Coppa Davis.
Con il «Nonno» ho condiviso un Milano-Roma andata e ritorno per il torneo del Foro. Credo abbia passato tutta la tratta a lamentarsi con me di quanto poco gli pagassero le splendide fotografie, che avevano una particolarità: i piedi agli atleti erano sempre tagliati. Un giorno, al torneo romano, vidi Ivan Lendl salutarlo allungandogli la mano. Mi stropicciai gli occhi dalla sorpresa, anche perché Ettore non parlava inglese, e dunque come era possibile che il truce Ivan sentisse il bisogno di andargli incontro per stringergli la mano? Venni a sapere, in quella circostanza, che il povero Lendl era uno dei giovani cecoslovacchi che, negli anni Settanta, partecipavano al Torneo Avvenire di Milano e il circolo si era rivolto a gente conosciuta e di fiducia per sapere se, per caso, fosse disponibile a ospitarne qualcuno.
Chissà che dialoghi strampalati potevano essere sbocciati tra un cecoslovacco minorenne, oltretutto non troppo loquace, Ettore e la moglie, la altrettanto leggendaria Rosetta che lui tanto amava rievocare nei suoi racconti, la quale preparava a Lendl la pasta al ragù e gli rifaceva il letto lasciato libero dalle figlie ormai adulte. Qualcosa di buono doveva esserci stato, vista la gratitudine dell'ex numero uno del mondo.
Durante una cena nel ristorante molisano di Roma di cui era habitué, il «Nonno» mi raccontò, lasciandomi sbalordito, di quella volta che il paraguaiano Victor Pecci, cascamorto di fama, ex finalista a Parigi e atleta di latina beltà, era stato mollato dalla fidanzata e gli aveva attaccato un bottone a sei asole a cena, perché allora capitava che giocatori e giornalisti mangiassero allo stesso tavolo. Immaginavo i suoi consigli da dottor Stranamore, in piacentino stretto: «Dai sü, Victor, che sei un bel fioeu e ne trovi quante ne vuoi.».
In redazione, tutto sommato si voleva bene a Ettore e anche io avevo imparato a volergliene, benché il direttore mi avesse affidato la mansione infame di ribattere al computer i suoi pezzi che, non so perché, ogni tanto si ostinava a presentarci scritti a macchina. Aveva il vizio di scrivere del pedigree dei giocatori, solo che non era certo della grafia e si era inventato il petit gris. Un giorno, i senatori della redazione diedero a me, ultimo arrivato, l'ingrato compito di telefonare a casa del «Nonno» - aveva risposto la signora Rosetta - per chiedergli l'etimologia di petit gris. Non so come feci a non scoppiare a ridere, ma sentii un fruscio di pagine scorse e, dopo un po', il rumore di una cornetta ripresa in mano: «Allora, sü, senti: petit gris è francese e significa piccola pelliccia».
Quando avevo iniziato a scartabellare gli archivi del giornale, mi ero accorto che il «Nonno» era solito titolare in maniera bizzarra. Il pezzo sulla indimenticabile finale di Wimbledon 1980, quella tra Borg e McEnroe con il tie-break più famoso della storia, era titolato pressappoco così: Le nuove leve del tennis americano sono molto forti e soprattutto giovanissime. Era un titolo. Il «Nonno», tra l'altro, andava molto fiero del fatto che uno dei soprannomi dell'ex superstar Steffi Graf fosse stato inventato da lui: «La tedeschina».
Ciò che gli invidiavo era la sicumera. Alla fine di un match decisivo in un torneo dello Slam era capacissimo di entrare in campo, andare da, che so, Andre Agassi e dirgli: «Sü dai, Agassi, tienilo dritto quel trofeo ché sennò non mi viene la foto». Ogni tanto ci facevamo un po' beffe di lui, ma chi rideva davvero era proprio il «Nonno» e ne aveva ben ragione visto quello che gli era riuscito di fare: un cronista di Castel San Giovanni che aveva fondato un'agenzia fotografica, la Fotosport, composta da lui solo e che confezionava servizi completi, girando pagato dagli editori per i quattro angoli del mondo. Una vita strepitosa, portata avanti per decenni e che, stupidamente, pensai di poter ripetere senza sapere che l'onda anomala di Internet avrebbe finito con il mangiarsi prima le trasferte, poi i giornali di carta e i suoi inserzionisti e, in definitiva, il sistema industriale che fino a quel momento aveva retto l'editoria. Sostituendolo con un «Cerca» su Google. Per mia fortuna, riuscii ad arrivare in tempo per vivere la fine di quel mondo. L'incarico della prima trasferta per la rivista arrivò piuttosto presto e fu, in soldoni, un disastro. Mi mandarono a seguire il poi defunto torneo di Palermo. Quando il direttore mi convocò nello stanzino, tra una telefonata con l'amministratore delegato di Babolat e una pila di fatture degli inserzionisti, per dirmi che a seguire l'evento sarei andato io, non stavo nella pelle. «Rimarrai tutta la settimana, sei arrivato da poco qui ma voglio testarti subito, mi raccomando perché sei osservato speciale. Facci fare bella figura. Sparisci.» Parlò tutto d'un fiato, senza guardarmi. Non risposi. Inviato della rivista che leggevo da ragazzino, in un torneo ATP. Io? Biglietto aereo andata e ritorno, anticipo in contanti per le spese, telefono aziendale, e l'ex numero uno del mondo Marcelo Rios iscritto al tabellone principale.
Stretto tra la sensazione di non essere adatto al ruolo e la voglia di partire in quello stesso istante, stavo già ragionando su quale stile adottare per quello che avrei raccontato: il Bruce Chatwin di In Patagonia, per esempio? Non pensavo solo allo stile della narrazione, ma al modo di pormi e di presentarmi: una delle più belle battute sentite sul conto di un ex inviato di cronaca giudiziaria italiano, un uomo che palesemente si piaceva molto, diceva che «Quello lì, prima ancora di essere un giornalista, è uno che si veste da giornalista». E un po' quella frase mi ronzava nella testa, portando con sé un alone vagamente romantico.
Non sapevo ancora dare una priorità né un ordine alle idee, alle cose che avevo letto e ascoltato negli anni, ai luoghi comuni che mi ero precostituito nella mente. Mi perdevo in pensieri stupidi come il colore della maglietta da indossare, impastati con l'ansia di essere brillante nella scrittura e il timore di non riuscire a portare a casa neanche una misera intervista. Pensavo, tra l'orgoglio e l'imbarazzo, che a breve avrei avuto a che fare con tennisti famosi e avrei dovuto fingere noncuranza, quando a metà di loro avrei volentieri chiesto un autografo. In uno dei miei primi pezzi, ficcai la locuzione «gesto apotropaico» pensando di fare qualcosa di intelligente quando, in realtà, mi qualificai solo come un idiota. Questa cosa, vent'anni fa, qualche caporedattore te la faceva ancora notare. Oggi no, e ai poveri appassionati che si stanno godendo un match in TV tocca ascoltare cose tipo: «Dritto prodromico alla chiusura del punto». In quel primo servizio in missione, però, imberbe com'ero non avevo ancora capito che sarebbe bastato ciò che Giorgio Bocca riteneva il segreto di un buon inviato. Saper annusare l'aria, lasciarsi guidare dall'istinto «di chi ha occhio per la caccia, dello schermidore che sa parare e tirare». Anche se, a dirla tutta, non avevo alcuna idea sul fatto che possedessi o meno, né in quale misura, una sola di quelle doti.
Comunque, stretto tra mille insicurezze, all'arrivo all'aeroporto non riuscii a trovare la persona che mi avrebbe dovuto accompagnare al circolo. Costui dovette chiamare la segretaria della rivista e lei il direttore del torneo, il leggendario Cino Marchese, uno degli imprenditori più capaci ed efficienti della storia del tennis internazionale. Un signore alto un metro e novanta, dalla voce cavernosa, il carattere particolarmente...