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Di recente ho tenuto un workshop di non-fiction e una studentessa, non appena le ho suggerito di includere più aneddoti personali nel suo saggio, mi ha rivolto una smorfia. Era una narrazione sperimentale dal punto di vista stilistico, e insinuava l'esistenza di un trauma di natura sessuale, ma poi virava prontamente verso riflessioni più liriche e analitiche sull'argomento generale. Con disgusto, la studentessa mi ha detto: "Ma non voglio mica apparire troppo egocentrica. Sa, come se mi guardassi l'ombelico". Il resto della classe, quasi completamente al femminile, ha fatto un cenno d'assenso. È una scena che si è replicata ovunque abbia mai insegnato scrittura creativa: università di qualsiasi rango, conferenze, salotti privati. Una preoccupazione che ho sentito ventilare a innumerevoli studenti e colleghi, e che in genere accolgo con un misto di sconcerto e frustrazione. Da quando raccontare le nostre storie personali e trarne delle riflessioni è diventata una cosa riprovevole? Poco importa che la vicenda sia la vostra, rispondo immancabilmente, l'importante è raccontarla bene. Non dovremmo forse impegnarci a raccontare storie proprio per far sì che la loro specificità sia rivelatrice di una qualche verità più profonda?
E invece. Quante volte mi è capitato di essere a conoscenza di occasioni di confronto tra scrittori, in cui anche solo l'idea ci fa arricciare il naso? Ci rassicuriamo maniacalmente a vicenda che la scrittura non è da intendersi come una forma di analisi. Che orrore! Siamo intellettuali, noi. Siamo artisti. "Insomma, mica puoi aspettarti che alla gente interessi il tuo diario," ho sentito esclamare una volta a una collega docente mia amica. Concordavo. Che razza di mostro narcisista farebbe mai un errore del genere?
Sono complice anch'io. Per prima ho tradito la mia stessa esperienza innumerevoli volte. Ma ne ho abbastanza di assentire quando i miei colleghi screditano anche solo l'idea che la scrittura sia un processo trasformativo, una catarsi, una forma di - che oltraggio! - terapia. Ditemi un po': chi è che si confida col proprio diario e poi smania dalla voglia di pubblicarlo? Non so chi siano questi ipotetici viziosi (e straordinariamente ammanicati) narcisisti. Ma sospetto che la gente, quando li denigra a livello astratto, se li immagini donne. Ne ho abbastanza di riferirmi, in tono dispregiativo, a storie su corpo sesso genere violenza gioia infanzia e famiglia con l'espressione "ombelicali".
Alcuni anni fa, a un festival culturale, nel corso di un panel tra direttori di riviste letterarie c'è stata una domanda: una donna ha chiesto che pubblico ci fosse, potenzialmente, per la sua storia di sopravvissuta a un trauma piuttosto comune. Uno degli editor presenti sul palco, un uomo, ha alzato gli occhi al cielo e con una scrollata di spalle ha risposto: "Be', non sono poi tanto convinto che di storie del genere ne servano ancora". Gli altri hanno annuito esprimendo il loro assenso: storie come la sua erano roba da talk show, inammissibile nel sacro regno della prosa letteraria. Lo sanno tutti che nessuno ha bisogno dell'ennesimo libro di quel tipo. Il genere del vittimismo è già così affollato di suo. Che volgarità.
Più tardi quel giorno, mentre prendevo parte a un dibattito sulla scrittura autobiografica, ho fatto un sondaggio tra il pubblico - una sala piena, con qualche centinaio di lettori e scrittori. Ho chiesto, per alzata di mano: "Chi tra voi ha subito un atto di violenza, abuso, estremo disarmo, aggressione sessuale, stalking o umiliazione?" La sala è piombata nel silenzio mentre in aria spuntava una mano dopo l'altra.
In risposta alla pubblicazione di una sfilza di memoir di successo, in un numero di Harper's Magazine del 1994 William H. Gass domanda: "Quest'impresa è sostenuta da motivazioni che non siano macchiate dall'arroganza o dal bisogno di vendetta o da un auspicio di giustificazione? Dal desiderio di piazzare un'aureola sulla testa di un peccatore? Di rimpolpare un ego già gonfiato oltremisura?" E continua: "Aver scritto un'autobiografia significa essersi già resi un mostro [.]. Perché mai è così eccitante dire, cosa che tutti sanno già: 'Sono nato. Sono nato. Sono nato' e 'Me la sono fatta addosso, mi hanno tradito, a scuola prendevo tutte A'?" È un'argomentazione che esiste da secoli, la sento da che ho iniziato a scrivere.
È il motivo per cui non volevo scrivere un memoir. A ventisei anni, mentre frequentavo un master di Scrittura narrativa, ero nel bel mezzo di quello che ritenevo essere un Romanzo Necessario sulla dipendenza e la sessualità femminile. A un certo punto ho seguito un laboratorio di non-fiction in cui ci hanno chiesto di scrivere un breve memoir. Nonostante i contenuti del mio romanzo traessero abbondantemente spunto dalla mia esperienza personale, non avevo mai scritto vera e propria non-fiction. Quella ventina di pagine sugli anni trascorsi a lavorare come dominatrice nasceva da un'urgenza mai provata prima. Appena aveva letto il mio testo, il professore aveva insistito perché mollassi qualsiasi progetto cui stessi lavorando per scrivere, invece, un memoir.
Ero inorridita. Chi ero mai io, una donna di ventisei anni con un passato di dipendenze e sex work, per dare per scontato che degli sconosciuti avrebbero trovato interessante la mia vita? Avevo già imparato la lezione: poche forme di presunzione sono più condannabili di quella di una giovane donna convinta che la propria storia abbia un qualche valore. E poi, stavo scrivendo un Romanzo Necessario.
"Non se ne parla," avevo risposto al professore. Ero determinata ad attenermi alla mia ben più umile presunzione che a qualche sconosciuto sarebbe interessata una storia inventata da una ventiseienne con un passato di dipendenze e sex work.
Vedete com'è facile trovare falle in questa logica?
La mia storia, però, non voleva saperne di lasciarmi in pace. Mi chiamava a sé in quel modo che ho ormai imparato a riconoscere come il richiamo delle mie storie migliori, quelle che più di tutte necessitano di essere raccontate. E così l'ho scritta. L'urgenza c'era, ma non è stata affatto una passeggiata. Per poter scrivere quel libro, ho dovuto ripercorrere a ritroso tutte le mie scelte più sconcertanti e scavare a fondo in certi eventi rispetto ai quali, di primo acchito, ero anestetizzata.
Quel libro parlava dei miei trascorsi come sex worker e di come mi ero ripresa da una dipendenza dall'eroina. Era un libro sul desiderio, sulla vergogna, su corpo, droga e denaro. Era un'inchiesta rigorosa su questi temi tanto quanto una presa di coscienza psicologica ed emotiva. Col senno di poi, posso dire che l'impulso a scriverla era un modo per esprimere il mio bisogno di comprendere che connessione ci fosse tra quelle cose. Di rispondere alle domande che avevo io stessa sul perché mi fossi ritrovata a farmi di speedball e a sculacciare gli uomini per guadagnarmi da vivere, e sul potere che la segretezza ha di diventare una prigione. L'ho scritto perché volevo far capire a qualche sconosciuto che condivideva le mie esperienze che non era solo.
Non è per liberarmi che ho scritto un memoir, eppure nel farlo è successo.
Negli anni Ottanta lo psicologo sociale James W. Pennebaker condusse alcuni studi ormai celebri per comprovare la sua teoria sulla scrittura espressiva. Pennebaker chiese ai componenti del gruppo sperimentale di scrivere di un loro trauma passato, esplicitando i pensieri più profondi e le sensazioni al riguardo. All'inverso, ai componenti del gruppo controllato fu chiesto di scrivere di temi neutrali nella maniera più oggettiva possibile e attenendosi ai fatti, senza rivelare le proprie emozioni né opinioni. A entrambi i gruppi fu concesso un quarto d'ora al giorno di scrittura ininterrotta, per quattro giorni consecutivi.
Alcuni dei componenti del gruppo sperimentale furono turbati da quell'esercizio. Tutti lo definirono valido e significativo. Un monitoraggio effettuato nel corso dell'anno successivo rivelò che quegli individui si erano recati con sempre meno frequenza dal medico. Da allora, le ricerche di Pennebaker sono state replicate svariate volte, confermando i suoi risultati: la scrittura espressiva legata a un trauma rafforza il sistema immunitario, riduce i pensieri ossessivi e contribuisce al benessere complessivo di chi scrive. E questo dopo appena quattro sessioni da quindici minuti. Pennebaker ha poi scritto a profusione spiegando come questo effetto possa rivelarsi consistente anche su scala ben più ampia, in comunità che hanno sofferto le atrocità della guerra o altri rivolgimenti di natura politica. L'articolazione di un ricordo doloroso, il che comprende la letteratura e l'arte che nascono da un tumulto politico, è fondamentale per la formazione, la preservazione e l'integrazione della memoria collettiva.
Diciamocelo: se vi mettete a scrivere delle vostre ferite, è probabile che ciò si riveli terapeutico. Ed è ovvio, quanto è stato scritto in quei quindici minuti era senza dubbio atroce dal punto di vista artistico. Ma è fallace, a rigor di logica, concludere che qualsiasi scritto abbia...
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