Schweitzer Fachinformationen
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Quando alle 4.40 suona la sveglia, ho già gli occhi aperti da sei o sette minuti. Gli altoparlanti gracchianti della chiesa hanno iniziato da un po' a diffondere gli ormai familiari salmi lamentosi, il nostro cane ha abbaiato alle iene tutta la notte e io ho sempre difficoltà a dormire sapendo che la mattina devo alzarmi così presto. Ieri sera mi sono messo a letto con i pantaloncini da corsa e adesso infilo a fatica la maglietta e le scarpe, preparate in anticipo per semplificare il più possibile le cose al momento del risveglio. Cinque minuti dopo Hailye e Fasil bussano alla porta, quindi tutti e tre ci incamminiamo verso l'autobus della squadra con i cappucci delle felpe calcati sulle teste per il freddo. «Stanco?», chiedo al secondo in amarico. «No!» esclama lui sorridendo. È raro che Fasil ammetta di essere stanco. Il numero di persone per la strada buia mi sorprende. In amarico "alba" si dice goh, e solitamente i locali iniziano la propria giornata come se questa parola fosse stata urlata nelle loro orecchie. Gli uomini camminano a passo deciso tra la polvere e gruppi di persone aspettano i minibus diretti in centro. Questi ultimi partono intorno alle quattro e il grido familiare delle diverse destinazioni, «Piazza, Arat Kilo!», già risuona nell'aria. Un ragazzino con una maglietta sbiadita dell'Arsenal si sporge dalla porta di un pulmino e in un inglese stentato mi chiede quale sia la mia destinazione. «Entoto», rispondo, mentre quello sparisce nelle tenebre.
L'autobus della Moyo Sports è stipato di runner che cercano di rubare qualche minuto di sonno prima dell'allenamento: in felpe con cappuccio o fasciati nei tradizionali shamma di cotone, sembrano un misto incoerente di monaci e pugili. Hailye, assistente coach e subagente, tiene d'occhio il cellulare e comunica via via all'autista dove andare a recuperare il resto degli atleti in attesa sul ciglio della strada buia accanto ai braccianti stagionali che attendono gli autobus di linea e si preparano per un altro tipo di fatica.
Ogni tanto, nel debole bagliore che precede l'alba, vedo sfrecciare alcuni corridori che approfittano delle strade ancora sgombre per allenarsi; ammantati in una foschia di fari e gas di scarico sembrano spettri che appaiono per un istante prima di svanire di nuovo nell'oscurità. L'autobus procede in salita tra tornanti e insediamenti ancora al buio. Le prime luci dell'alba rivelano numerose immaginette cristiane sul cruscotto e due adesivi sul parabrezza: una colomba bianca a sinistra e un simbolo della Nike esageratamente voluminoso a destra. La strada asfaltata cede il posto a un sentiero acciottolato e, poco dopo, a uno sterrato. Noi ci fermiamo quando questo minaccia di diventare troppo stretto per essere percorso. Coach Meseret, seduto sul sedile anteriore, resetta i suoi tre cronometri e prende gli ultimi appunti su un foglio di carta ricoperto di cifre, poi si volta e ordina a tutti di scendere.
Sono le sei, il mio respiro si trasforma in vapore e sale verso la montagna, oscurando ulteriormente il sentiero semibuio sul quale a breve cominceremo a correre. Scuoto le gambe cercando di assaporare l'aria più rarefatta. L'autobus ha impiegato più di un'ora per raggiungere questo punto, diverse centinaia di metri più su rispetto a Addis Abeba, la città a 2500 metri sul livello del mare in cui mi sono temporaneamente trasferito. Qualche settimana fa, mentre pianificavo il mio soggiorno in Etiopia, ho ricevuto un messaggio da Hailye. «Ti consiglio soprattutto Entoto», c'era scritto. «È il segreto della straordinaria prestazione che ha permesso a Haile Gebrselassie di trionfare a Berlino», "segreto" non così ben tenuto a Addis Abeba. Molti corridori incontrati nella foresta in cui mi sono allenato nelle ultime due settimane mi hanno parlato con un filo di voce di questa montagna e delle sue qualità mitiche. «È alta 3800 metri», mi dice Meseret. «Puoi controllare su Internet!» Non sono convinto che sia così alta dico e comunque non voglio credergli. Non correremo di certo su una montagna alta quasi la metà dell'Everest, no?
Alla fine ciò che importa davvero non è tanto l'esatta altitudine, quanto la fede riposta in essa: correre quassù non danneggerà la capacità polmonare di nessuno, ma potrebbe invece rafforzare la capacità di sognare di un giovane atleta. «Qui l'aria è speciale», mi dice Aseffa stiracchiandosi dopo il tragitto in autobus. Ha un fisico muscoloso per essere un runner, ed è soprannominato "Biretu", che Hailye mi traduce con "Iron Man". «Fa bene all'emoglobina», interviene Teklemariam, la cui stempiatura è attribuita dagli altri atleti alla sua intelligenza. Il fatto che il termine "emoglobina" faccia parte del suo limitato vocabolario inglese mi sorprende. Lui se ne accorge e aggiunge: «Conosci l'emoglobina?» Non personalmente, rispondo. «Corri molto lento», mi consiglia. «L'aria è speciale».
Il monte Entoto è oltre tre volte più alto della vetta più elevata di tutta l'Inghilterra. È il genere di altitudine a cui vi viene mal di testa appena si inizia a correre e, come ho scoperto, quella in cui comincio a perdere la sensibilità alle dita. È su questa montagna che l'imperatore Menelik II fondò Addis Abeba alla fine del XIX secolo, ma a causa delle temperature rigide non passò molto prima che la moglie lo convinse a spostare il palazzo reale a valle, dove faceva un po' più caldo e c'erano sorgenti termali. Ricoperta di eucalipti importati dall'Australia, questa montagna è conosciuta come il "polmone di Addis Abeba", ma non sembra esserci molto ossigeno quassù. «Metterà sotto pressione il tuo apparato di respirazione», mi dice coach Meseret, che indossa una giacca Adidas azzurra lunga fino al ginocchio con il cappuccio calcato sulla testa e i laccetti legati stretti sotto il mento per proteggersi dal freddo. «Inspira», mi consiglia, prendendo un respiro a pieni polmoni e alzandosi sulla punta dei piedi. «Ed espira», prosegue, rilasciando l'aria con forza. «Dentro. e fuori». Mi dà una pacca affettuosa sulla schiena.
Al nostro arrivo l'autobus emana un'evidente aria di riluttanza. Gli atleti, rimasti seduti su sedili piccoli e angusti per un'ora, ci mettono alcuni minuti per sgranchirsi le gambe e le braccia indolenzite. Inoltre, una trepidazione assonnata ha sostituito la consueta giovialità della squadra: è chiaro che anche gli etiopi temono un poco questa montagna. L'allenatore mi spiega che la sessione di allenamento per il gruppo principale consiste in 70 minuti a un'andatura di 3.50 minuti per chilometro seguiti da dodici ripetute in salita di 200 metri a tutta velocità. «Oggi puoi saltare le ripetute», mi dice. Rispondo che forse ha ragione. «Limitati a fare 90 minuti in scioltezza.» E mentre si allontana aggiunge: «Beh, sì, in scioltezza, ma intensi». Questo è esattamente il tipo di affermazione criptica che farei volentieri a meno di sentire su una strada semibuia, a metà di una montagna e non del tutto acclimatato all'altitudine. Tiro un sospiro di sollievo quando Teklemariam mi comunica che correrà con me invece che con il gruppo principale.
L'autobus della Moyo Sports, con i finestrini appannati dal respiro condensato di sessanta tra i migliori polmoni del pianeta, è fermo ai margini di una radura circondata dalla foresta. Teklemariam si incammina verso gli alberi, dietro gli altri, e mi fa cenno di seguirlo. Mi sento meglio quando iniziamo a correre, tranquillizzato dalla sensazione familiare del mio corpo che si sveglia, dei muscoli che si scaldano appena più velocemente dell'aria circostante. È la prima volta che corro a una simile altitudine, ma mi sento come quando comincio una qualsiasi corsa mattutina, e questo mi è un po' di conforto in un ambiente che non conosco. Le gambe e le braccia si sciolgono, si rilassano, sintonizzandosi poco alla volta al ritmo tranquillo imposto da Teklemariam. Ma avverto subito un senso di vertigine, e i polmoni lavorano sodo anche se l'andatura è lenta. Meseret ha ragione, l'aria sta mettendo sotto pressione il mio "apparato di respirazione". All'improvviso mi accorgo dei muscoli necessari per aspirare ed espellere l'aria, ovvero il meccanismo della respirazione. È un processo di solito talmente inconscio che adesso mi coglie di sorpresa. Sento che il corpo si sta sforzando di monitorare e di registrare la carenza di ossigeno, spingendomi a concentrarmi sul riempire davvero i polmoni.
I raggi del sole hanno iniziato a tremolare tra gli eucalipti che delimitano il percorso e l'unico suono che si sente è lo scalpiccio ritmico delle scarpe sul sentiero. Poco alla volta il silenzio che ha caratterizzato il tragitto in autobus cede il posto al chiacchiericcio spensierato di una corsa mattutina etiope, e capisco che finché il gruppo davanti a noi continua a parlare l'allenamento non è ancora entrato nel vivo. Ma la pendenza del sentiero indistinto che stiamo seguendo aumenta, e ci imbattiamo in due salite in rapida successione che percorriamo in dieci minuti ciascuna. Gli alberi iniziano ad assumere sembianze innaturali, si ergono troppo...
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