Schweitzer Fachinformationen
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Ricordo poco del primo giorno in vasca. Mia madre mi ha raccontato di avermi portato in piscina quando avevo poco più di tre anni e che l'istruttore le diceva che ero l'unica bambina a ridere anche sott'acqua. Sicuramente non era una questione di genetica. I miei genitori non sanno nuotare e, sempre a sentire i racconti di mia mamma, le parole che mio fratello proferiva prima di ogni lezione erano: «Se proprio vuoi che muoia, andrò».
Cosa c'è in me di così diverso dalla mia famiglia? Talvolta ho pensato di essere stata scambiata nella culla dell'ospedale, non fosse che la somiglianza fisica con i miei rende evidente la parentela. Eppure, nessuno di loro riconosce nell'acqua il proprio elemento naturale.
Non so se "ridere sott'acqua" sia un talento; quando si inizia a insegnare a nuotare a un bambino, contrariamente a quanto si pensa, non gli si insegna a galleggiare, ma a immergersi, e il fatto che io sorridessi doveva essere sintomo di uno stato d'animo positivo. Il riflesso d'immersione è una competenza innata e a dimostrarlo ci sono centinaia se non migliaia di video con bambini e bambine sott'acqua sorridenti, con gli occhi spalancati. Attenzione però che questa capacità, se non stimolata, rischia di andare presto perduta. Quello che accade ai bambini non è dunque frutto di grandi doti dell'istruttore, ma di risposte fisiologiche legate all'immersione. Non appena il viso e le narici entrano a contatto con l'acqua fredda, la risposta del fisico è automatica: il respiro e il battito rallentano, e la valvola tra bocca ed esofago si chiude impedendo di bere. La pressione aumenta, la milza manda in circolo più globuli rossi e il sangue viene prelevato dalle zone periferiche per essere spinto verso gli organi vitali. Tutto questo gran movimento di fluidi ed emozioni avviene in modo istintivo.
Non si sa ancora bene a cosa sia dovuto il riflesso, forse è insito nel feto che deve crescere e respirare immerso in un liquido, forse è il retaggio della nostra discendenza da animali acquatici, rimane la certezza che il riflesso d'immersione si perde dopo pochi mesi di vita; ecco perché sono così importanti i corsi per nuoto baby, non per creare futuri campioni, ma per conservare una capacità che, per quanto incompleta, può risultare importante per tutta la vita. I primi corsi di nuoto iniziano a circa sei mesi, periodo che viene definito dalle vaccinazioni obbligatorie; le piscine sono ambienti sicuri, ma per quanto un neonato e una neonata allattati al seno si difendano grazie al sistema immunitario materno, prima di quell'età è consigliabile fermarsi al bagnetto casalingo.
Saper nuotare, oltre a essere una disciplina sportiva, è una competenza che potrebbe salvare la vita e credo sia questa la principale causa di fraintendimenti quando si parla di nuoto. Nel domandarci «perché nuotiamo?» la prima risposta dovrebbe essere «per aumentare le possibilità di sopravvivenza», diversa e più complessa è invece la risposta alla domanda «perché amiamo nuotare?».
Galleggiare non è né un talento né un apprendimento, ma è il risultato del principio di Archimede: un corpo immerso in un fluido riceve una spinta pari al peso del fluido spostato; enunciato tanto semplice quanto noto. Questa forza determina la galleggiabilità del corpo, che dipende quindi da volume e densità. Più il corpo è voluminoso e meno denso, più sta a galla. Dato il rapporto tra il volume di un corpo e il suo peso, gli esseri umani hanno caratteristiche tali per cui è l'acqua a sostenere il corpo a galla. È sbagliato affermare che in acqua ci si muove in assenza di gravità, l'affermazione corretta è che ci si muove in presenza di una forza in grado di contrastare, più o meno a seconda della forma fisica, la forza di gravità. La misura in cui è in grado di farlo dipende da quanto il baricentro e il centro del volume spostato sono vicini tra loro quando il corpo è in posizione orizzontale: più lo sono, come nel caso di bambini piccoli, più il corpo galleggia, meno lo sono, come nel caso di persone con le gambe molto lunghe, più ci sarà bisogno di applicare altre forze per garantire un galleggiamento perfetto. In assenza di vestiti bagnati, pesi o situazioni che trascinano il corpo sott'acqua, l'essere umano quindi galleggia, e galleggiando è in grado di muoversi sulla superficie dell'acqua. Annegare non è una questione di nuotare o stare a galla, ma di respirare. Si annega quando l'acqua entra nei polmoni. Il controllo della respirazione ha molto più a che fare con il rapporto che si instaura con l'acqua, con l'armonia che si ha con questo fluido o con situazioni contingenti come la stanchezza o il freddo che non con l'essere un nuotatore provetto. Anche un nuotatore esperto può annegare.
Da sempre nuotare è una questione di sopravvivenza, né più né meno che correre e saltare: scappare da animali feroci, scoprire terre più idonee alla vita, trovare cibo, combattere, fuggire dai nemici. Il nuoto è una competenza così importante che, per definire una persona di poco valore, i romani scrivevano: «Non sa né leggere né nuotare».
Negli Stati Uniti sono nette le differenze tra i metodi di chi avvicina al nuoto strizzando l'occhio alla disciplina sportiva e chi invece insegna a galleggiare (magari con addosso i vestiti, semplicemente insegnando come girarsi da prono a supino in acqua e mantenere la calma per gestire gli istanti più concitati di un'accidentale caduta).
In Italia la scuola nuoto comincia con l'acquaticità e prosegue con l'insegnamento degli stili, senza distinzione iniziale tra chi vorrà seguire una carriera sportiva e chi è invece interessato ad acquisire competenze salvavita.
Da quando mi sono ritirata dal mondo agonistico ho sempre avuto il desiderio di promuovere il nuoto: dai camp agli eventi sportivi, al commento tecnico, allo studio, e proprio per questo durante un viaggio in California ho deciso di incontrare un'insegnante di infant swimming per approfondire l'argomento. Dato che in Italia questa metodologia era quasi del tutto assente, ho voluto conoscere Steffi Keitzler. Steffi mi ha dato appuntamento in un caffè vicino alla struttura dove teneva le lezioni; ho dovuto insistere per incontrarla, la sua agenda sembrava essere molto fitta. Nel nostro scambio via email ero rimasta incuriosita dai suoi racconti, dal fatto che ottenere la qualifica di istruttrice le avesse richiesto tempo e, soprattutto, dai tantissimi mesi di pratica che aveva dovuto fare sul campo, affiancata da una tutor.
Steffi è un'ex nuotatrice, anche se non di alto livello, e non mi spiegavo come il corso potesse essere così impegnativo per chi già conosceva teoria e pratica della disciplina. Per rispondere a questa e a tante altre domande, tra una lezione e l'altra Steffi aveva mezz'ora di tempo per me.
Durante il nostro breve incontro mi spiegò il suo punto di vista e il perché lei, che dalla Germania si era trasferita con il marito negli Stati Uniti, aveva scelto di imparare e poi applicare questo metodo poco conosciuto nel vecchio continente. Trenta minuti erano pochi per parlare di sicurezza in acqua, di quanto questo tema fosse più presente in America rispetto al suo Paese di origine e di come avesse scoperto che tutto quello che le avevano insegnato sull'impossibilità di imparare schemi motori prima dei quattro anni fosse stato scardinato dalla sua esperienza. Aveva insistito sul fatto che questo metodo fosse più adatto anche per chi avrebbe poi deciso di proseguire nella pratica del nuoto e non solo come vademecum per vivere in sicurezza una giornata in piscina a qualsiasi età. Finito il tempo a disposizione, mi disse di fermarmi per assistere alla lezione che stava per cominciare. L'allievo era un bambino di poco più di sei mesi che aveva quasi completato il ciclo mensile di lezioni: una lezione di venti minuti al giorno per quattro giorni a settimana, una vera e propria full immersion.
Tranne le primissime lezioni, svolte con la discesa in acqua di uno dei due genitori, tutte le altre prevedevano la sola presenza dell'istruttrice, in un rapporto uno a uno con il bambino. Acquisita la fiducia del piccolo, l'attenzione era concentrata sul far percepire l'ambiente circostante come sicuro e divertente. Le comunicazioni erano perlopiù non verbali, ma fatte di sguardi, sorrisi dentro e fuori dall'acqua, immersioni e ripetizioni di movimenti della testa che il bambino controllava già molto bene. A Steffi bastava spostargli il capo a destra o a sinistra perché lui si portasse da posizione prona a supina e viceversa. I movimenti erano molto simili a quelli della respirazione a stile libero. Al termine della lezione, il bambino venne vestito di tutto punto, scarpe comprese, fatto sedere a bordo piscina e attratto verso l'acqua con un gioco; capii subito che quella che avevo di fronte era una vera e propria esibizione di quanto avesse già imparato in così poco tempo. Cadde in acqua, si immerse e, dopo pochi istanti, si girò da solo a pancia in su rimanendo tranquillo e sorridente cercando lo sguardo dell'istruttrice. Quel bambino era circondato da un elemento che...
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