Prefazione
Nostalgia del burnous
di Irene Soave
Nostalgia del burnous - e no, non è un refuso per "burnout": ogni epoca ha le sue parole, e l'ultima dell'ultimo articolo di questa raccolta, a pagina 235, ha a distanza di cinquantasei anni un sapore esotico, dimenticato. Lo è anche l'oggetto a cui si riferisce: un mantello di lana pesante, di grande eleganza berbera, pronuncia burnùs.
"Giacche da castellano, cravatte a rose e burnous": sono eleganti gli uomini della moda che hanno "sfilato a Firenze [.] e qui a Roma", e la notizia è proprio che hanno sfilato. È il 1967. "Ancora qualche anno, e forse le collezioni di moda non ci saranno più. Quelle di moda femminile s'intende, perché oggi il maschio scalpita, vuole ed ottiene le sue sfilate anche lui, e ruba il velluto, esige il raso, si mette su la camicetta di fiori".
La sfida per un lettore 2024, avvezzo e da parecchio all'uomo che "esige il raso", è leggere senza nostalgia le cronache e le note di questa raccolta. Senza nostalgia: preferiremmo essere così raffinati e agiati da saper scegliere per noi tra una cappa dal sapore mediorientale e delle "redingottine in velluto ciselé"; e invece burnous dobbiamo googlarlo (e forse anche redingottina, e forse anche ciselé) mentre sappiamo benissimo, nostro malgrado, che cos'è il burnout.
Già nel 1968, quando fu pubblicata per la prima volta dall'editore genovese Michele Immordino, la raccolta Le pervestite doveva consegnare al futuro "una fetta della recente attualità italiana": la serie si intitolava "Un anno di", e si annunciava come "una collana nuova per i tempi nuovi". Una "collana specializzata dove scrittori e giornalisti avessero ospitalità per pubblicare in volume i propri articoli 'non morti'", scriveva Il Messaggero.
Copertine che somigliavano a quelle dei periodici, dominate come le copertine dei periodici da foto non in posa, spesso di donne un po' svestite. Titoli vari, e variamente legati all'attualità: l'Italia sexy della giornalista e poeta Milena Milani, che la collana la dirigeva; Requiem per papà, dello psicologo Dino Origlia, con in copertina una pistola che sembrava alludere alla gioventù criminale; I passi perduti, del giornalista e sceneggiatore Vincenzo Talarico, sulla belle époque romana di quegli anni. A cura di Salvatore Quasimodo, una raccolta dei suoi "Colloqui" coi lettori della rivista Tempo: un'Italia che il poeta definisce, nell'introduzione, "alle prese con un pericolo, l'abbandono alla pseudocultura". "Un anno di" avrebbe pure dovuto accogliere L'Italia esplode, malinconico racconto poi rimasto inedito di Irene Brin, che vi raccontava il suo 1952 (iniziato con i postumi di una gravidanza interrotta)*.
E poi Le pervestite, di Camilla Cederna, quinto libro pubblicato da lei, quinto titolo della collana, raccolta di ventiquattro suoi articoli usciti sull'Espresso da gennaio 1967 a gennaio 1968.
Un titolo provocatorio e legato alla moda: le pervestite sono le protagoniste del terzo pezzo della raccolta, dedicato alle sfilate di Parigi dove era andata in scena un'identità femminile inedita, quasi imbizzarrita, forse rivoluzionaria. Era il 1968. Il secolo cambiava, "l'Italia esplodeva", e descriverne i mutamenti era il compito degli autori di "Un anno di", scelti dalle pagine dei più letti settimanali e quotidiani.
Il racconto di Cederna, firma femminile quasi solitaria dell'Espresso affollato di nomoni della cultura tutti maschili - Lionello Venturi, Massimo Mila, Alberto Moravia, Sandro De Feo, Eugenio Scalfari, Geno Pampaloni, Leo Valiani, Giorgio Bassani, Bruno Zevi - comincia dalle sfilate di moda, e non è proprio un caso. Parlare di un'epoca a partire dal suo "lato debole" - così si intitolava la rubrica che tenne sull'Espresso dal 1956 al 1977, e anche questo titolo non era un caso - è stata sempre la cifra programmatica del lavoro di Cederna. Teorizzò sempre la mescolanza dell'indignazione con il sentimento, e della frivolezza con l'impegno, anche negli anni dopo il 1968 che trascorse a occuparsi di argomenti tutt'altro che frivoli. Questo programma lo dichiarava spesso: tra le regole, che amava enunciare negli articoli, del suo giornalismo, aveva massima importanza quella di "trattare con serietà le cose frivole e con leggerezza le cose gravi", precetto chiave di quella "società della conversazione" al cui tramonto assisteva. L'ambizione delle sue note, ripeteva altrove, "era quella di descrivere le persone come un entomologo descrive un insetto". Tra l'antropologia e il pettegolezzo: per muoversi su questo terreno, la moda era un veicolo ideale.
A cominciare dalla tesi di laurea: molti di noi accendono in queste pagine fiammelle di passioni definitive, dichiarazioni d'intenti, indizi chiari di vite future, e così Cederna, che intitola la sua - relatore il latinista illustre Luigi Castiglioni - Anatemi contro il lusso femminile dalla filosofia popolare greca ai Padri della Chiesa. Frivolezze e moralismi, linguaggio altissimo e temi minuti: un impasto che cominciava lì. Il voto di laurea è 108 e non 110, perché la tesi è scritta "in tono più giornalistico che dotto". Altro verdetto-profezia.
Avviene con la moda, e insieme non solo con quella, anche l'esordio giornalistico di Camilla Cederna. Un esordio, o quasi. Già dal 1939 collaborava con il settimanale milanese L'Ambrosiano, e poi con Il Secolo-La Sera: qui scriveva soprattutto "pezzi di varietà", come si diceva allora. E il suo primo articolo, che non si trova facilmente negli archivi e nelle emeroteche del Sistema Bibliotecario Nazionale**, era dedicato alle divise delle cameriere dell'avveniristico bar Motta di piazza Duomo.
Ma è nel 1943, in una data dal tempismo pessimo - 7 settembre, la vigilia dell'armistizio -, che Camilla Cederna esordisce al Pomeriggio, supplemento del Corriere della Sera che iniziava a rinnovarsi, dove l'aveva chiamata il direttore (del Pomeriggio) Filippo Sacchi. Il governo Badoglio prometteva di smantellare il regime, e la consegna del direttore a Cederna fu di scrivere un pezzo su "qualche particolare del fascismo che si credeva ormai morto e sepolto" (così lei, nella sua autobiografia). La moda nera è una lunga satira sulle divise di orbace delle fasciste militanti ora in disgrazia, con le loro giacche da "scarafaggio", i cinturoni dal sapore militare, in testa la "bustina, pensile e incerta". L'articolo strappa qualche sorriso pure amaro, ma causa alla sua autrice non pochi guai. Il giorno successivo c'è l'annuncio dell'armistizio, Milano si riempie di camionette tedesche, e il direttore Sacchi scappa in Svizzera. Pochi mesi dopo, in villeggiatura in Valtellina, Camilla Cederna viene raggiunta dalla polizia e arrestata. Due settimane di carcere a Sondrio, poi la colletta in famiglia per pagare la cauzione, la libertà provvisoria; la pena in seguito decadrà per l'amnistia sui reati di antifascismo dei "Quarantacinque giorni".
Iniziano poco dopo, nel 1945, i suoi dieci anni all'Europeo, settimanale allora nuovissimo, dove l'aveva chiamata Arrigo Benedetti. Sarà un decennio pieno di avventure, che Cederna riassumerà, nel 1958, nel suo primo libro Noi siamo le signore.
Come ogni avventura intellettuale, però, basta alterarne un ingrediente per comprometterla. E così succede all'Europeo, che nel 1953 viene acquisito da Rizzoli. L'editore ne cambia la formula, e il primo ad andarsene è il direttore, che due anni dopo fonderà L'Espresso. Camilla Cederna resta all'Europeo per poco più di un anno, col nuovo direttore Michele Serra. Con lui, però, si sente sempre meno a casa. Ed è ancora la moda, argomento-atout che continua a usare per incursioni in tutto il resto dell'attualità, a portarla su quella che sarà la sua strada.
Sfogliando i primi numeri dell'Espresso, Serra rimane incuriosito da una penna brillante, quella delle commentatrici di moda. È un arguto duo femminile, che si firma sempre "Sofia & Caterina". Chiede a Camilla Cederna, dell'ambiente, di indagare su chi si celi dietro questo nome di fantasia: lei torna pochi giorni dopo da lui e gli dice che Sofia e Caterina sono due sartine.
Non è vero, naturalmente: naturalmente è già lei, che collabora col suo vecchio direttore Benedetti sotto pseudonimo e presto lo raggiungerà a bordo dell'indispensabile zattera della moda, zona franca femminile in redazioni affollatissime di maschi seriosi, e nel metodo di Cederna anche cavallo di Troia in cui parlare, oltre che della moda, di tutto.
La sua lunga carriera all'Espresso sarà fatta di grandi inchieste sulla polizia, sulla repressione dei movimenti, sulla politica; sempre accanto a un "lato debole" - costume, moda, mode - che...