Senza dominio
Qualsiasi dominio ha sempre bisogno
del concorso dei dominati
i. Si potrebbe pensare di restar fermi, come fa il viandante esausto quando si accovaccia accanto al muro a secco in attesa che la tormenta si calmi. Bisogna muoversi, invece, di continuo. Occorre riprendere un cammino impervio, lastricato di domande e privo di certezze. Quel che probabilmente ci serve, per tentare di dare nuova linfa e restituire dignità alla nostra immaginazione, è qualcosa che non esiste. Non esiste ancora, oppure non è visibile, è una potenzialità, esiste in potenza. Possiamo inventarlo, oppure renderlo visibile, perché sia nuovamente modificato e rimodellato secondo le necessità di chi rifiuta la logica del dominio. Dobbiamo farlo in movimento, dobbiamo pensare e vivere in costante movimento.
Per secoli si è creduto che il diritto di dominare, di impartire ordini e ricevere obbedienza assoluta fosse di emanazione divina. Negli ultimi decenni tale privilegio sembra riservato a chi lo ha conquistato con la violenza o con la rapina, ma è soprattutto un privilegio dei mercati finanziari. Chi intenda opporsi a questo e a ogni altro dominio planetario, chiunque aspiri a un profondo cambiamento sociale, è «condannato» a spostarsi dal luogo in cui il sistema lo ha collocato. Deve produrre un movimento. Restare ancorati a quel che si è o, meglio, a quel che si pensa di essere, aggrapparsi a presunte e fragili identità equivale, in sostanza, a cessare di esistere. Vuol dire essere riassorbiti da ricomposizioni del sistema inesorabili quanto improvvise. Ricomposizioni invisibili agli anticorpi (democratici, di sinistra, ecc.) che si pensa di aver messo saldamente e per sempre in campo contro il contagio del dominio.
Ma qual è, oggi, il tipo di movimento utile a non riproporre, spesso senza averne consapevolezza, la logica del dominio? Naturalmente, non abbiamo risposte. Possiamo ipotizzare, però, che un movimento piano, tradizionale, da destra a sinistra ad esempio, sia di ben scarsa efficacia. Meglio, forse, un movimento circolare, oppure, come propone in modo suggestivo Raúl Zibechi, una danza che sappia riconfigurare il movimento a ogni giro. Il movimento come scommessa della passione e dell'intensità di fronte a una rappresentazione (rappresentanza) statica, destinata sempre a sacrificarlo (il movimento) sull'altare dell'ordine. Qualsiasi ordine. Viviamo anni di cambiamenti profondi, ipotizzarne la durata o la direzione è impresa ardua che lasciamo volentieri ad altri. Per descrivere il convulso e caotico mutare della realtà contemporanea, Zibechi utilizza la metafora di una trottola. Spesso, spiega, saremo tentati di darle una piccola spinta, di aiutarla «generosamente» ad accelerare il ritmo, a intensificare i suoi giri. Sarà bene resistere a quella tentazione, l'esito più probabile sarebbe quello di fermare la trottola. Meglio immaginare di «essere anche noi parte di quel movimento rotatorio. Esserne parte, sebbene non se ne controlli la destinazione finale». Malgrado non si riesca, cioè, ad avere il dominio del suo vorticoso movimento.
ii. Il mondo che conosciamo, e quello che esiste ma non conosciamo ancora, è attraversato da forme di dominio sempre più dinamiche e fulminee. Un tempo si pensava fosse sufficiente pretendere di dominare la terra e i fiumi, gli oceani e le montagne, e poi le donne, i sottomessi, i sottoposti, i servi, gli operai, gli animali e ogni altra specie vivente, la materia. Oggi il «virus del dominio», l'efficace espressione è di Danilo Dolci, si espande velocissimo attraverso territori e linguaggi evoluti, dalle nanotecnologie a sistemi d'informazione sempre più complessi e automatizzati. È un'espansione vertiginosa, in grado di produrre inedite subordinazioni e rovinose dipendenze, di limitare l'autonomia del pensiero critico, di moltiplicare i bisogni e di azzerare le capacità creative e la fantasia.
Per immaginare di potersi sottrarre alla logica del dominio, logica che caratterizza ogni relazione sociale (lo Stato, il denaro o anche la rete Internet), si potrebbe forse cominciare riconoscendo che i concetti e le parole che abitualmente utilizziamo per descrivere e comprendere quel che accade non sono più adeguati o sufficienti. Il discorso vale, a maggior ragione, per buona parte delle interpretazioni analitiche che provano a orientare l'azione delle società in movimento verso un cambiamento radicale attraverso la riproduzione di percorsi noti e già largamente sconfitti.
Dobbiamo però evitare di pensare al dominio come a un gigantesco e invincibile Moloch. Sarà utile tenere presente che, per riprodursi tra le persone, il dominio ha bisogno del concorso dei dominati. Il dominio, che al nostro tempo è il dominio del capitalismo, non è indipendente, dipende da noi. Siamo noi a crearlo ogni giorno, possiamo dunque smettere di farlo. Non in modo assoluto, inseguendo una qualche mitica purezza rivoluzionaria, ma creando comuni momenti e spazi di rifiuto, ribellione e creazione nei quali affermare forme diverse del nostro «fare». Sono le «crepe» nel capitalismo di cui parla John Holloway. Si tratta di spazi e momenti di un «fare» che si sottrae alla logica del dominio, quindi alla logica del capitale, e crea altre, diverse, relazioni sociali. Un fare necessariamente pieno di contraddizioni, come la realtà in cui viviamo.
Le crepe, scrive Holloway, cominciano con un «No», una negazione-e-creazione da cui emerge la nostra dignità. Poi, le crepe si muovono veloci, in modo raramente prevedibile, correndo lungo le faglie quasi invisibili della rivolta del fare contro l'astrazione del fare nel lavoro, cioè contro ciò che tiene insieme il capitalismo. La nostra dignità non è però la dignità delle vittime, delle denunce e delle rivendicazioni per un futuro migliore, è la pratica di un modo e di un mondo diversi. La crisi di un capitalismo che non riesce più a imporre la sua dominazione è forse l'espressione più visibile dell'affermazione di questa dignità. Il processo di creazione, moltiplicazione e allargamento delle crepe non è qualcosa di utopico, da preparare per una lontana e improbabile prospettiva, è invece una rivoluzione già in corso in ogni angolo del mondo. Ce ne accorgiamo quando essa si rende visibile, con l'esplosione di rivolte sempre più frequenti, ma esiste nella vita quotidiana, nella ribellione di ognuno di noi.
iii. Continuiamo a chiamare capitalismo un sistema di relazioni sociali che non è controllato dai capitalisti, dai governi o dalle istituzioni finanziarie, ma dalle cose: il denaro, i mercati, i capitali. È un sistema che umilia e impoverisce le persone e la loro cultura, che considera il denaro e le cose come più importanti della vita stessa del pianeta e di chi lo abita. Oggi, tuttavia, il capitalismo sembra manifestarsi in modo più evidente come una macchina che corre da sola, una macchina automatizzata, decerebrata e forse impazzita. «Il processo predatorio», segnalano Geert Lovink e Franco «Bifo» Berardi, «è stato automatizzato. I trasferimenti di risorse e ricchezza da coloro che producono a coloro che non fanno altro che controllare astratte transazioni finanziarie si è incorporato nella macchina, nel software che governa la macchina».
Eppure, il capitalismo perde costantemente i suoi equilibri. Le bolle speculative esplodono una dopo l'altra, i fallimenti si moltiplicano, le concentrazioni aumentano, l'economia annaspa e la disoccupazione dilaga. Il declino delle roccaforti, perfino geografiche, del sistema che conosciamo è lampante: gli Stati Uniti, ben oltre la fine della loro egemonia, saranno presto un paese instabile. Da diversi decenni, lì e ovunque, le imprese, gli Stati e le famiglie si indebitano. Una parola di sole cinque lettere serve a spiegare tutto, ogni processo che si delinea nel mondo. È la crisi. Domina gli articoli di fondo del «New York Times» come della «Gazzetta di Mantova», imperversa nei meeting dei superpotenti e nei commenti delle massaie di fronte ai banchi della frutta dei mercatini rionali. Non dobbiamo averne paura, anzi. Non ci è indispensabile studiare e raccontare la storia, le ricomposizioni e le trasformazioni del capitalismo. Non ci danneremo per cercare di analizzarne i cicli, a noi serve uscire dal capitalismo. A noi interessa la crisi.
E la crisi esiste, non è un'invenzione dei media. I media (e inevitabilmente anche noi) usano il concetto di crisi per segnalare qualcosa di ineluttabile: la crisi è la causa di tutti i nostri problemi. Dovremo dunque aspettare (o fare in modo) che la crisi passi per cominciare a immaginare un domani diverso? Intanto, nel migliore dei casi, potremo soltanto provare a limitare i danni? C'è una evidente inversione dei fattori di causa ed effetto. Potrebbe aiutare, in casi come questo, una rapida rivisitazione dell'etimo. Crisi viene dal greco krisis, una parola che potrebbe segnalare, con una definizione un po' incerta, una separazione tra un modo di essere, oppure tra una serie di fenomeni, e un altro, diverso dal primo. La crisi segna dunque un passaggio, e il concetto originario sembra contenere il problema e il suo superamento. La crisi è un cambiamento.
iv. Una delle possibili chiavi da utilizzare per navigare nella crisi aprendo crepe nella logica del dominio è la separazione tra i concetti di dominio e potere. Ne parla Danilo Dolci, che...