INTRODUZIONE
Nel marzo 2013 mi sono recato al Gaylord National Resort and Convention Center, un'imponente struttura al coperto situata a sud di Washington DC, e ho assistito all'insorgere di una crisi democratica.
Il Gaylord ospitava la Conservative Political Action Conference (CPAC), il raduno di punta della destra politica americana. All'epoca, il Partito repubblicano era ancora plasmato da un'idea di Tea Party: i partecipanti alla CPAC indossavano cappelli a tricorno e sventolavano bandiere di Gadsden alla maniera dei manifestanti anti-Obama che si erano sollevati quattro anni prima.
Il mio compito principale alla conferenza era quello di documentare, come meglio potevo, l'estremismo che si stava radicando nel GOP. Ero un piccolo reporter di un blog liberale, quindi i politici repubblicani non facevano esattamente la fila per parlare con me. Li inseguivo per i corridoi, urlando domande, otte nendo il più delle volte solo rapide fughe o un silenzio di tomba. Un'altra strategia si è rivelata più fruttuosa: partecipare alle piccole sessioni collaterali della conferenza per vedere cosa dicevano i relatori e i partecipanti quando si trovavano in uno spazio sicuro.
Io e un mio collega ci siamo presentati a una sessione intitolata «Trump the Race Card» («Giocare la carta della razza»). Mentre qualsiasi presentazione con questo titolo oggi sarebbe su Donald, questa non lo era (anche se Trump ha parlato alla conferenza). La sessione era coordinata da un uomo di nome K. Carl Smith, il fondatore dei Frederick Douglass Republicans, un gruppo che pretendeva di vendere idee conservatrici al pubblico nero. Dopo che Smith ha ultimato la sua presentazione, un uomo con i capelli a spazzola e una barba sottile si è alzato per fare una domanda. Si è identificato come Scott Terry, del North Carolina.
«Mi sembra che lei si stia rivolgendo agli elettori - il metodo, il programma che ci sta offrendo - a spese dei giovani maschi bianchi del Sud come me», ha detto Terry. Sentendo questo, ho iniziato immediatamente a filmare il panel con il mio telefono.
«Mi sembra che la mia gente, il mio gruppo demografico, sia stato escluso dal sistema», ha continuato Terry. «Perché non possiamo essere repubblicani seguendo l'impostazione di Booker T. Washington e della sua famosa dichiarazione: "Siamo uniti come la mano, ma separati come le dita"?»
La frase deriva dal discorso di Washington a una fiera agricola e culturale ad Atlanta nel 1895, in cui il principale intellettuale nero offrì ai bianchi un compromesso: aiutare a migliorare lo stato economico della popolazione nera, che in cambio avrebbe tollerato la segregazione e l'esclusione dalla scena politica. Washington cercava di fare il possibile per una comunità profondamente vulnerabile. La Ricostruzione era terminata da poco e i bianchi del Sud in ascesa erano impegnati nella realizzazione dell'ordine politico segregazionista, o Jim Crow. Scott Terry non vedeva la segregazione come qualcosa di inevitabile nel breve termine ma che alla fine avrebbe dovuto cessare, come Washington, ma come un ideale affermativo, una politica a cui il paese dovrebbe tornare oggi.
Non era chiaro se Smith avesse capito subito cosa Terry stava realmente dicendo. Ha iniziato a spiegare perché aveva dato alla sua organizzazione il nome di Frederick Douglass piuttosto che quello di Washington, raccontando la storia del grande attivista antischiavista che scrisse una lettera nella quale perdonava il suo ex padrone. Terry, per tutta risposta, chiese perché il padrone avesse bisogno di essere perdonato. Perché avrebbe dovuto scusarsi «per aver dato [a Douglass] rifugio e cibo per tutti quegli anni?», chiese Terry.
Smith cercò di replicare - «Lasciatemi rispondere alla prima domanda» - ma fu soffocato da un'eruzione del pubblico. Alcuni ridevano, come se pensassero che Terry stava scherzando. Altri applaudivano. Terry ha continuato, borbottando: «Perché non possiamo avere la segregazione?», senza rivolgersi a nessuno in particolare. Alla fine, un moderatore del CPAC è intervenuto per ristabilire l'ordine.
Dopo che le cose si sono calmate, sono corso da Terry. Era seduto accanto a un amico, Matthew Heimbach, che indossava una maglietta con la bandiera confederata (anni dopo, Heimbach avrebbe avuto un ruolo importante nell'organizzazione del famigerato raduno dei suprematisti bianchi del 2017 a Charlottesville). Durante la nostra conversazione, Terry è stato molto aperto su ciò che credeva: i bianchi dovrebbero control lare perennemente il sistema politico e i neri dovrebbero essere rinchiusi per sempre in un sistema subordinato, simile all'apartheid. Se ai neri non piace, ha concluso, «dovrebbero essere autorizzati a votare in Africa».
Ma non è stata questa la parte della conversazione che mi ha colpito di più. C'era una cosa - un inciso, in realtà - alla quale ho continuato a pensare per anni: Terry sosteneva di essere un discendente diretto del presidente confederato Jefferson Davis. Se questo fosse vero, significherebbe che siamo imparentati.
La famiglia di mio padre è presente in America da moltissimo tempo. Un genealogista ha fatto risalire la discendenza del clan Beauchamp a prima della fondazione degli Stati Uniti. Davis, il primo e unico presidente confederato, fa parte di questa famiglia allargata dalla parte di mia nonna. La mia bisnonna, anche lei una Davis, parlava spesso di lui e delle sue visite nella sua casa d'infanzia. Questo lignaggio fa di Davis un mio lontano cugino.
Ma mentre Terry celebrava questa eredità, io ero orgoglioso della rivolta di mio padre contro di essa. Al liceo, mio padre lasciava la sua casa a Dallas la domenica mattina, dicendo a suo padre - un consigliere comunale - che sarebbe andato nella loro chiesa. In realtà frequentava le chiese nere e organizzava sit-in presso le mense. Da studente alla Southern Methodist University fondò una confraternita che sfidava la segregazione nel campus. Da adulto sposò mia madre, figlia di due sopravvissuti all'Olocausto che erano stati ammessi nel paese come rifugiati, e si convertì all'ebraismo.
Crescere ascoltando questa storia famigliare mi ha trasformato nel più piccolo patriota d'America. Da bambino, ero immensamente orgoglioso del trionfo del mio paese sulla Confederazione e sulla Germania nazista, sistemi che rappresentava no, rispettivamente, la vergogna e l'oppressione della mia famiglia. Alle elementari, durante la ricreazione, leggevo una storia di ottocento pagine sulla Seconda guerra mondiale. Nel mio gioco per computer preferito, Civilization ii, non facevo che replicare scenari in cui poter assumere il comando dell'Unione e delle forze alleate, conducendo più e più volte una guerra giusta, e sempre con l'impostazione più semplice per garantire la vittoria dei buoni.
Questo era un modo di affrontare la storia degli Stati Uniti - celebrare le guerre giuste del paese e ignorare i molti mali che aveva perpetrato - che nasceva dall'essere un ragazzo bianco di classe medioalta negli idilliaci anni Novanta della fine della storia. A differenza dei miei nonni, sopravvissuti ai campi di sterminio, la mia sicurezza non è mai stata seriamente a rischio. Una volta, nel mio quartiere fortemente cattolico nei sobborghi di Washington, alcuni ragazzini chiassosi rovesciarono le cassette della posta fuori dalle case ebraiche della zona. I loro genitori fecero in modo che i ragazzi si scusassero e le riparassero.
Ma allo stesso tempo, la mia fuga verso il conforto storico è emersa da una preoccupazione esistenziale più profonda. Mio nonno materno, che visse con noi per qualche tempo, era nervoso e paranoico, con l'anima segnata dall'esperienza ad Auschwitz. Mi chiedevo perché mio padre dovesse uscire di nascosto per partecipare alle proteste, e come i miei nonni paterni - così gentili con me quando andavamo a trovarli a Dallas - potessero apparentemente essere d'accordo con una cosa mostruosa come la segregazione. La mia giovane vita era chiaramente sicura e stabile, ma avevo la sensazione che non sarebbe stato sempre così: che la facile calma che prevaleva negli anni Novanta non era l'ordine permanente delle cose, né negli Stati Uniti né nel resto del mondo. Sono arrivato a vedere la democrazia come qualcosa di prezioso e a temere che anche una società apparentemente votata agli ideali egualitari potesse precipitare in qualcosa di più oscuro.
Scott Terry ha portato alla luce questi timori. Era la prova vivente che un consanguineo poteva guardare alla nostra storia comune e trovare orgoglio dove io trovavo vergogna, risentimento per la stessa versione della storia che a me dava conforto. In questo modo, mi ha aperto la mente alla possibilità che il consenso intorno ai principi fondamentali della democrazia liberale in paesi come gli Stati Uniti potesse non essere così ampiamente condiviso come sembrava.
Nei dieci anni successivi della mia carriera di giornalista, ho visto questa possibilità diventare realtà. In tutto il mondo, potenti fazioni politiche nelle democrazie consolidate hanno lavorato per alterare il tessuto stesso del sistema democratico, preservando la forma delle elezioni ma minandone l'equità. Quando ci sono riusciti, sono stati in grado di sostituire la democrazia con qualcosa di completamente diverso: un sistema che a prima vista appariva democratico, ma che fondamentalmente era truccato a favore del partito al potere. Gli scienziati politici Steven Levitsky e Lucan Way chiamano questo sistema «autoritarismo competitivo». Mantiene le regole democratiche formali,...