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Molti anni fa, quando parlavo della Puglia con qualcuno che non c'era mai stato, ero prodigo di consigli su dove andare, cosa vedere, come mangiare, chi incontrare. Oggi il depistaggio mi sembra una misura necessaria, forse un piccolo gesto di civiltà. Per l'overtourism valgono i versi di Rilke - «il bello non è che il tremendo al suo inizio» - e la trasformazione del prodigioso continente plurale dove sono nato in Puglia-shire è il peggio che potrebbe capitare alla mia regione.
Pur avendo una storia millenaria, fino a qualche decennio fa la Puglia non era molto conosciuta all'estero, l'inclinazione all'autorappresentazione le apparteneva poco, e persino per molti italiani poteva risultare un'indecifrata terra di confine: un posto affascinante per chi lo frequentava ma sconosciuto agli altri, nascosto (forse protetto) da un persistente cono d'ombra. Quando l'Italia del boom si rispecchiò nel successo mondiale di «Nel blu dipinto di blu» era il 1958 e pochissimi avrebbero associato la canzone a un trentenne di Polignano a Mare. Domenico Modugno si spacciava per cantante siciliano. L'immaginario condiviso non contemplava l'idea di un artista pugliese capace di superare i confini regionali. Davanti a una cartina muta pochi, a ovest di San Severo, sarebbero stati in grado di indicare i capoluoghi di provincia. Più di sessant'anni dopo, nell'estate del 2024, vicino Savelletri, in provincia di Brindisi, si è invece svolto il G7. I grandi del pianeta sono atterrati su una Puglia già molto conosciuta da americani e asiatici, celebrata dal New York times e dalle Lonely planet, frequentata da Madonna e da Tom Hanks, da Meryl Streep e da Helen Mirren, raccontata nei romanzi, nei film, cantata con orgoglio da band che riempiono gli stadi. Che cosa è successo in poco più di mezzo secolo? Che cos'è andato magnificamente, cioè che cosa rischia di andare storto proprio adesso?
La Puglia è una realtà plurale, così veniva declinata (le Puglie) fino al 1970. Il singolare fu adottato quando vennero istituite le regioni: si ritenne che la semplificazione linguistica avrebbe favorito le nuove necessità amministrative nonché la promozione del turismo. Probabilmente è vero, ma il singolare mi vede recalcitrante.
In Puglia non c'è una geografia uniforme (ci sono il mare, la gravina, due tra le pianure più estese d'Italia, i boschi, le pinete, gli altopiani, le saline), non esiste uno stile architettonico dominante (basti passare dal romanico della terra di Bari al barocco del Salento, per non tacere degli edifici neoclassici, di quelli liberty, dei trulli, delle lamie, delle masserie fortificate, delle case coloniche, di quelle imbiancate), non c'è una lingua comune: dire «dialetto pugliese» vuol dire bestemmiare. I dialetti in Puglia cambiano di paesino in paesino, figuriamoci di provincia in provincia, e se un acquavivese, un noiano e un sanseverese non si capiranno tra loro mentre parlano i rispettivi dialetti, nessuno dei tre comprenderà chi parla il grico, un idioma composto da elementi di greco antico, greco bizantino, salentino e italiano, che si usa ancora nella Grecìa Salentina, un'isola ellenofona che comprende una decina di piccoli comuni. Le dominazioni che nei secoli si sono disordinatamente succedute in Puglia - messapi, peucezi, greci, romani, bizantini, saraceni, normanni, svevi, angioini, aragonesi, borboni. - sono un discreto specchio del pirotecnico politeismo di questa regione, così ben rappresentato dai fuochi d'artificio e dalle luminarie delle feste patronali durante cui, sul volto della Madonna portata in processione, affiora il sorriso di Demetra.
NICOLA LAGIOIA - Scrittore originario di Bari. È stato direttore del Salone del libro di Torino dal 2017 al 2023 e dal 2020 conduce Pagina 3 su Rai radio 3. Inoltre ha lavorato sia come selezionatore che come giurato per la Mostra del cinema di Venezia. Ha esordito nel 2001 con Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (minimum fax) e negli anni ha vinto molti premi, tra cui il Viareggio-Rèpaci, il Vittorini e il Volponi per Riportando tutto a casa (Einaudi, 2009) e lo Strega per La ferocia (Einaudi, 2014). Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
Piazza del Duomo a Lecce, con la cattedrale di Santa Maria Assunta e il campanile.
Considerando la ricchezza di queste difformità, dovrei allora dire che cosa al contrario ci accomuna, dal momento che la Puglia, così diversa al proprio interno, è tenuta molto bene insieme entro se stessa, e possiede (nell'intero) una personalità e una identità chiarissime rispetto a ciò che le sta fuori e le sta dentro, cioè l'Italia. Ricorderò allora che la Puglia è la regione più a est del nostro paese (Ferrovie del Sud Est è un nome caro a chiunque abbia esperienza del trasporto su ferro in questi luoghi), la sua identità non si rispecchia in un gesto fondativo ma in un continuo movimento, un progressivo scivolare da occidente a oriente, da nord a sud, dalla roccia all'acqua, dal solido al multiforme, dalla concretezza al sogno, dall'io alla perdita di sé.
Pochi fuori dalla regione conoscono il Palazzo dell'acquedotto pugliese di Bari. Si tratta di un edificio magnifico, uno dei pochi palazzi tematici del nostro paese - è dedicato all'acqua. Lo si finì di costruire nel 1932, ma le sue forme hanno poco a che fare con lo stile del Ventennio. L'architettura fascista cercava di comunicare un'idea di forza, uniformità, solidità, mascolinità. (Non tralasciamo di dire che la forza si pervertiva spesso in prepotenza, l'uniformità in razzismo, la solidità in rigidità, la mascolinità in violenza.) Il Palazzo dell'acquedotto, al contrario, sembra librarsi verso l'alto spinto da un armonioso intreccio di stili (neoromanico, liberty, art déco), ispirazioni (oriente e occidente), generi (maschile e femminile), ed essendo appunto dedicato all'acqua (la vera fonte della vita) ricava forza dalla cedevolezza, e una segreta saggezza dal saper cambiare forma. È un palazzo che rappresenta bene una regione poco sensibile al richiamo del binomio «terra e sangue» - eppure la terra per noi è molto importante.
Da una parte dunque la Puglia sembra avere a che fare con la pietra, l'acqua e il vento più che con il ferro e il sangue. Dall'altra, la terra riveste appunto un ruolo cruciale. Le campagne, gli uliveti, i vitigni, i grandi campi di grano sono imprescindibili, ma più che componenti di un oscuro mito delle origini sono luoghi di lotta e di liberazione, di dannazione e di sostentamento. Ancora un movimento, dunque. Il Tavoliere fu a lungo il regno dei latifondisti. La loro ricchezza era edificata sullo sfruttamento dei braccianti. È significativo ciò che racconta a tal proposito Tommaso Fiore. Nato ad Altamura nel 1884, Fiore fu scrittore, politico, meridionalista di orientamento socialista. Ne Il cafone all'inferno, libro del 1955, descrisse i contadini del Tavoliere, i quali versavano in condizioni drammatiche nonostante la fine del latifondo e la riforma agraria.
Il racconto che dà il titolo al libro è una sorta di parabola tratta da un manoscritto ritrovato dall'allora sindaco di Sannicandro. Il manoscritto era stato redatto dal padre del sindaco, che aveva lavorato come bracciante. La parabola narra il viaggio oltremondano di un «cafone» del Tavoliere. Dopo essere morto, il cafone cerca di entrare in Paradiso ma gli viene negato l'ingresso. Si reca in Purgatorio, ma viene cacciato anche da qui. All'Inferno entra invece senza problemi, e comincia ad aggirarsi tra le bolge con agio singolare. Questa destinazione gli sembra tutto sommato confortevole. È «un posto dove si gode» dice. I diavoli restano sbalorditi. Conducono il cafone da Satana, il quale gli chiede da dove arriva per parlare così. «Sono pugliese» risponde il cafone «ho lavorato tutta la vita nel Tavoliere.» Le sofferenze dell'Inferno, continua, sono bazzecole rispetto a ciò che si patisce nelle campagne dove è cresciuto lui. Satana non crede alle sue orecchie. Ordina a un diavolo di travestirsi da bracciante e andare a verificare. Dopo due giorni, il povero diavolo torna all'Inferno tutto insanguinato, «con le ali sconquassate e spennate». E conferma: l'Inferno è un posto di gran lunga migliore.
Come è facile capire, alla poetica degli sfruttati non fanno difetto un'ironia e un sarcasmo che gridano giustizia (e vendetta) quanto più ostentano ineluttabilità e rassegnazione.
«Padrone mio, ti voglio arricchire, padrone mio, ti voglio arricchire / come un cane voglio lavorare, come un cane voglio lavorare» recitano i versi di una canzone di Matteo Salvatore, nato ad Apricena, provincia di Foggia, tra i più importanti codificatori della musica popolare del nostro paese.
In realtà questo tipo di amarezza può essere il prodromo di una rivolta, meglio, di una...
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