Il centro non può reggere
La Francia somiglia sempre più a un arcipelago di comunità separate, che raramente si parlano. La coesione sociale e politica che un tempo teneva insieme il paese si è dissolta, lasciando una realtà fatta di identità molteplici e spesso distanti, un mosaico complesso che mette alla prova la capacità della classe dirigente di costruire un progetto comune.
Francesco Maselli
Fotografie di Arnau Bach
FRANCESCO MASELLI - Giornalista e corrispondente da Roma per il quotidiano francese L'Opinion, è autore della raccolta di saggi e reportage L'Italia ha paura del mare (Nr, 2023). Ha scritto anche per Linkiesta, Il Foglio, Limes e Rivista studio e, in periodo elettorale in Francia, cura la newsletter «Marat», prodotta da Nightreview.
ARNAU BACH - Dopo essersi occupato per anni di cronaca, ha lavorato a un reportage sulla periferia nord di Parigi, Suburbia, che gli è valso numerosi riconoscimenti. I suoi lavori sono stati pubblicati su testate come Time, The New Yorker, Süddeutsche Zeitung. Nel 2016 viene invitato a una residenza artistica in Bretagna per sviluppare un progetto sulla regione, che darà forma a Agglo, una serie che accompagna questo articolo e che esplora la proliferazione dei quartieri periferici di Saint-Brieuc e la desertificazione del centro. Il progetto indaga il comportamento consumistico della società e la tendenza a omogeneizzare il paesaggio e i comportamenti.
Cercare di riassumere un paese in un'immagine o in un aneddoto è sempre un esercizio pericoloso, che rischia di mettere in risalto un suo aspetto certo esistente ma parziale. È un limite inevitabile, ma provarci può aiutare a decifrare alcuni tratti evidenti di nazioni e popoli - a patto di non affezionarsi troppo alle conclusioni.
La sera del 7 maggio 2017, a pochi minuti dalla certificazione della sua prima vittoria alle elezioni presidenziali, Emmanuel Macron decide di presentarsi alla Francia e al mondo in pompa magna, con una camminata dall'ingresso principale del Louvre verso i Giardini delle Tuileries, avvolto in un cappotto scuro, con la piramide di vetro che riflette i flash dei fotografi, le luci degli smartphone e le bandiere francesi ed europee della folla venuta ad acclamarlo. Mentre il neoeletto presidente si avvicina al palco sorridendo, con calma, in una interminabile passeggiata di oltre quattro minuti, risuona l'inno alla gioia di Beethoven, a suggellare il suo impegno europeo e non solo francese, segno della sua ambizione continentale.
L'attenzione ai simboli monarchici e repubblicani, la verticalità del potere messa in scena con la camminata solitaria e la grandeur di tutta l'organizzazione raccontano molto del protagonista, naturalmente, ma anche del paese che ha guidato per due mandati: in qualunque altro contesto quell'ingresso sarebbe apparso pretenzioso, a tratti ridicolo e senz'altro esagerato. In Francia no: al contrario, la sequenza rende bene l'idea di una nazione verticale, incarnata dalla persona chiamata a guidarla per un mandato elettivo come un monarca repubblicano.
Quella sera al Louvre, Macron non mette in scena solo se stesso, ma anche un'idea precisa della Francia: uno stato forte, centralizzato, capace di parlare con una voce sola. Una visione che affonda le sue radici nella storia del paese, nel suo cuore parigino che sovrasta tutto il resto. Macron aveva già tratteggiato questa visione nel 2015, intervistato dal settimanale Le 1: «Nel processo democratico e nel suo funzionamento c'è un assente: è la figura del re, che credo il popolo francese non abbia voluto vedere morto. Il Terrore ha scavato un vuoto emozionale, immaginario, collettivo: il re non è più lì! Abbiamo cercato di riempire questo vuoto mettendoci altre figure, ma ci siamo riusciti davvero soltanto nel periodo napoleonico e in quello gollista; a parte questi due momenti, la democrazia francese non è riuscita a riempire questo vuoto. Dopo il generale De Gaulle, la normalizzazione della figura presidenziale ha inserito una poltrona vuota nel cuore della vita politica: pretendiamo che il presidente della repubblica occupi questa funzione, ma chi è eletto non riesce più a farlo. Tutto è fondato su questo malinteso.» Probabilmente già immaginava chi avrebbe potuto restaurare la dignità monarchica della presidenza della repubblica. All'epoca l'intervista passò quasi inosservata, Macron era da poco stato nominato ministro dell'Economia, le presidenziali erano lontane e una vittoria della destra post gollista sembrava ineluttabile. La fascinazione per la figura imperiale è invece esplicita. Subito dopo la sua elezione, davanti a una classe del liceo di Limoges Les Vaseix, Macron spiega: «La presidenza presuppone un cerimoniale, una distanza, una verticalità.»
Difficile non pensare all'assolutismo monarchico, e soprattutto all'impero napoleonico, con tutti i suoi simboli e la sua organizzazione gerarchica, impossibile non considerare quanto la presidenza della repubblica si inserisca in questo solco e spieghi una parte del funzionamento della società transalpina. La rappresentazione letteraria ne è, come prevedibile, influenzata. Nel romanzo Le grand Paris di Aurélien Bellanger (Gallimard, 2018), questa dinamica si articola attorno a due figure: da un lato Alexandre Belgrand, erede di una dinastia di urbanisti e incarnazione dell'archetipo tecnocratico - il funzionario colto e visionario che crede nella missione civilizzatrice dello stato. È lui a progettare, sul piano tecnico e simbolico, l'ampliamento della metropolitana oltre il Périphérique, la tangenziale che cinge il centro della capitale e lo divide, fisicamente e psicologicamente, dalle banlieues, ricche o povere che siano. Il Grand Paris express è la risposta per superare questo ostacolo, allo stesso tempo un'opera ingegneristica e sociale. L'altra presenza al cuore del romanzo, mai nominata esplicitamente ma sempre evocata, è il Prince, il principe. Una figura presidenziale, di cui Belgrand è solo il braccio destro, che ricorda da vicino Nicolas Sarkozy - il vero ideatore del Grand Paris. È il principe che ha l'intuizione, la volontà e il potere per avviare un progetto di riconnessione tra la città e il mondo circostante, ed è in lui che si concentra quella tensione tutta francese verso la verticalità, l'idea che la coesione nazionale, in assenza di strutture intermedie forti, debba passare per la mediazione di una figura unica, capace di incarnare e orientare l'interesse generale.
Nella realtà, tuttavia, questa unità si è spezzata, e per quanto il monarca repubblicano provi a tenere insieme il paese, forse in modo anacronistico, la grammatica è cambiata per sempre.
Negli ultimi quarant'anni la Francia ha subito un profondo processo di trasformazione, che ne ha progressivamente messo in discussione l'immagine classica di stato centralizzato e di nazione compatta. Il sociologo Jérôme Fourquet, nel suo saggio più celebre, L'archipel français («L'arcipelago francese», Seuil, 2019), offre un'interpretazione originale dell'aumento delle tensioni interne, generate da fenomeni che sembrano slegati ma che invece contribuiscono all'«arcipelaghizzazione» della Francia: non più una società organizzata per classi sociali o lungo le linee ideologiche tradizionali, ma una moltitudine di gruppi, identità e mondi che non riescono più a fare comunità e viaggiano in parallelo, senza bisogno né intenzione di incontrarsi.
La tesi centrale del saggio è che la matrice fondante della nazione francese dalla Rivoluzione all'inizio del Novecento è stata la convivenza tra l'influenza della Chiesa cattolica e l'ideale repubblicano, poi incarnato in larga parte del secolo scorso dall'ideologia comunista e dal Partito comunista francese (Pcf). Due «chiese», due sistemi di senso e appartenenza, che hanno organizzato la vita sociale, scandito i riti collettivi, dato forma a valori condivisi. Certo, anche in altri paesi europei - come l'Italia - cattolicesimo e comunismo hanno svolto un ruolo analogo. Ma il contesto francese ha caratteristiche peculiari: questa convivenza, che ha strutturato la vita quotidiana e politica per secoli, è scomparsa senza essere sostituita da un altro tratto comune.
Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la Chiesa aveva un radicamento simile a quello dello stato, facilmente riscontrabile nelle numerosissime cappelle, parrocchie e chiese in ogni comune. La presenza capillare consentiva una grande presa sociale, anche questa immutata nei secoli: il numero di preti, religiosi e suore del 1789 (170mila) era pressoché identico nel 1950 (177mila). Oggi il numero di religiosi è in caduta libera ed è sceso sotto le trentamila persone. I riti collettivi cambiano: la cremazione prevale sempre più sull'inumazione, e anche i battesimi sono in profonda diminuzione, crollati da uno...